L’offesa oltre la memoria

Fabio Levi

Il testo che segue è stato proposto al Convegno Primo Levi e la memoria, tenutosi a Torino il 2 e il 3 ottobre 2025 presso la Fondazione Luigi Einaudi.

Il convegno era inserito entro il progetto PRIN 2022 Thesaurus Primo Levi. Genesi e disseminazione di un corpus novecentesco, coordinato da Mariarosa Bricchi con la partecipazione delle Università di Pavia, Parma, Padova e Torino

La memoria dell’offesa

Da Polvere, componimento in versi di Primo Levi datato 29 settembre 1984: «La polvere non ha peso né suono / Né colore né scopo: vela e nega. / Oblitera, nasconde e paralizza: / Non uccide ma spegne, / non è morta ma dorme»1P. Levi, Ad ora incerta, in Opere complete II, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2016-2018, p. 775. . E da I sommersi e i salvati uscito due anni dopo: «Anche in condizioni normali è all’opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono. E’ probabile che si possa riconoscere qui una delle grandi forze della natura, quella stessa che degrada l’ordine in disordine, la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte»2Id., I sommersi e i salvati, in OC II, p. 1155. . Fra un’immagine senza tempo e una visione cosmica, in forma ancora molto sfumata e qui in balia di forze ineluttabili, comincia a intravvedersi ciò che la memoria è per lo scrittore.
Tutto al contrario, se proseguiamo la ricerca in altri parti dell’opera, scopriamo l’importanza che per lui ha la memoria sua propria, come risorsa ben definita da analizzare minuziosamente, e capace di resistere a molte prove: all’Università, trovarsi «discepolo dell’Assistente [voleva dire] essere per lui l’interlocutore ideale, un foglio bianco su cui qualunque messaggio poteva essere inciso»3Id., Il sistema periodico, in OC I, p. 902. ; al ritorno da Auschwitz «avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie dalla bruttura che vi giaceva [ma] sentivamo che questo non poteva avvenire»4Id., La tregua, in OC I, p. 310. ; e altrove: «io conservo una memoria visiva e acustica delle esperienze [del Lager] che non so spiegare (…). Non solo: mi sono rimaste incise in mente, come su di un nastro magnetico, delle frasi in lingue che non conosco»5Id., Intervista concessa a Marco Vigevani (1984), in OC III, p. 443. .
Partire da sé è un modo per sottolineare che la memoria va considerata, prima di ogni altra cosa, nella sua dimensione individuale. Non che sia impossibile generalizzare. Ad esempio, riguardo al rapporto con gli orrori dello sterminio, si presentano a volte paradossali analogie fra vittime e oppressori. Guai però a trascurare le differenze. «I due sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha approntata e che l’ha fatta scattare, e se ne soffre, è giusto che ne soffra: ed è iniquo che ne soffra la vittima»6Id., I sommersi... cit., p. 1156.  . Le memorie sono tante quanti sono gli individui, e si intrecciano inestricabilmente con i percorsi più o meno accidentati della loro vita. Il ricordo può risultare volta per volta utile, piacevole, cruciale, doloroso, orribile. Ed effetti analoghi possono produrre la dimenticanza e la rimozione.
Il discorso è però più complesso. C’è una memoria «che sta inscritta nelle vostre cellule, per cui i vostri capelli biondi sono il ricordo (sì il “souvenir”, il ricordo fatto materia) di innumerevoli altri capelli biondi (…). Queste cose le avete registrate, “recorded”: le ricordate bene, ma (…) a che serve ricordare senza evocare? Non è questo il senso del verbo “ricordare”, quale viene comunemente pronunciato e inteso»7Id., Vizio di forma, in OC I, p. 813. . E ancora, sempre sulle orme di Darwin: «ciò che è vivo, lotta per vivere e non sa perché. Il perché sta scritto in ogni cellula, ma in un linguaggio che non sappiamo leggere con la mente: lo leggiamo però con tutto il nostro essere, e obbediamo al messaggio con tutto il nostro comportamento. Ma il messaggio può essere più o meno imperativo: sopravvivono le specie in cui il messaggio è inciso profondo e chiaro, le altre si estinguono, si sono estinte (…). Possono nascere individui senza amore per la vita; altri lo possono perdere (…): lo possono perdere anche gruppi di individui, epoche, nazioni, famiglie»8Ivi, p. 671. . Rimane però aperto un quesito: quale rapporto intrattiene quel messaggio con la volontà dei singoli?
Quanto a Levi, di se stesso in Lager scrive: «dovevo aver sviluppato una strana callosità, se allora riuscivo non solo a sopravvivere, ma anche a pensare, a registrare il mondo intorno a me»9Id., Il sistema... cit., p. 962. . Era come se lui deportato avesse posto in essere una memoria duplice, caratterizzata da un’ibridazione inusitata fra automatismi e consapevolezza. E di conseguenza lo scrittore non manca di sottolineare in molte occasioni che le strade attraverso le quali il nostro bagaglio mnemonico si forma e si mantiene vivo sono difficili da scoprire e quasi impossibili da individuare con precisione: la memoria viene suscitata o sollecitata dagli eventi più diversi; a volte ci serve esercitarla per ragioni di utilità; spesso è evocata in modo imprevisto o con violenza brutale. Innumerevoli sono anche i fattori che ne provocano l’appannamento e la trasformazione, in un percorso al contrario che non ha requie e che non riusciamo a governare. Tendiamo ad esempio a filtrare ed espellere i ricordi negativi: «Il memore ha voluto diventare immemore e ci è riuscito. A furia di negarne l’esistenza, ha espulso da sé il ricordo nocivo come si espelle un’escrezione o un parassita»10Id., I sommersi... cit., p.1160. . Oppure: «Un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese»11Ivi, p. 1161. . «Il modo migliore per difendersi dall’invasione di memorie pesanti è impedirne l’ingresso, stendere una barriera sanitaria lungo il confine. E’ più facile vietare l’ingresso a un ricordo che liberarsene dopo che è stato registrato»12Ivi, p. 1161. . «Chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel profondo, per liberarsene, per liberarsi dal senso di colpa»13Ivi, p. 1154. .
Tutt’altro è, come sappiamo, l’atteggiamento di Levi: alla domanda rivoltagli in un’intervista del 1981 «Il ricordo della deportazione incide ancora sulla sua memoria?»14Id., Intervista concessa a Graziella Granì (1981), in OC III, p. 219. , risponde così: «Incide, certo, perché non sono esperienze che si dimenticano, o per lo meno io non le voglio dimenticare»15Ibidem. . Qui si apre un capitolo, svolto dallo scrittore in molte occasioni e già approfondito da un gran numero di studiosi, a proposito del quale non è dunque il caso di insistere ora: su come siano evoluti i ricordi di Auschwitz nel corso degli anni successivi al ritorno, e su come sia stato possibile tradurli in un racconto di verità. Una cosa sola mi preme sottolineare ora: la memoria è per Levi uno strumento di importanza straordinaria e dai meccanismi di funzionamento in gran parte misteriosi; mai però uno strumento che possa considerarsi neutro. Volta per volta le valenze, morali e non solo, di ciò che essa propone dipendono dal contesto in cui si alimenta o, viceversa, tende a spegnersi. Sempre da Polvere leggiamo allora gli ultimi versi: «Perciò rispetta e temi / Questo mantello grigio e senza forma: / Contiene il male e il bene, / Il pericolo e molte cose scritte»16Id., Ad ora... cit., p. 775. .

A La memoria dell’offesa è dedicato il primo capitolo de I sommersi e i salvati17Id., I sommersi... cit., p. 1155. . Sulla memoria ho appena detto qualcosa. Fermiamoci allora un momento sul secondo termine di quel titolo. A cosa si riferisce Levi con “offesa”? Già in molti hanno notato la cura estrema con cui lo scrittore evita di imprigionare le esperienze di cui anche lui è stato vittima, negli anni intorno alla seconda guerra mondiale, in un termine unico e definitorio. Di fronte all’incommensurabile di quell’orrore preferisce utilizzarne diversi.  “Auschwitz”, “Lager”, “olocausto” con la “o” minuscola, “offesa” - appunto - richiamano una parte, una dimensione di quell’esperienza, capace di dare concretezza all’oggetto in questione, e nello stesso tempo di rimandare a un tutto dai confini difficili da definire con precisione, sempre sfuggenti perché infinitamente ampi. Ne La tregua ad esempio, commenta così la devastazione di una caserma sovietica compiuta dai militari tedeschi: «Più di un saccheggio, insomma: il genio della distruzione, della controcreazione, qui come ad Auschwitz; la mistica del vuoto, al di là di ogni esigenza di guerra o impeto di preda»18Id., La tregua cit., p. 400.  . Altrove, commentando le immagini del documentario Olocausto uscito nel 1979, con riferimento al “Supernemico” rappresentato per la Germania nazista dagli ebrei, afferma: «Ora, il capro espiatorio è stato bensì sterminato nell’olocausto europeo, ma accanto ai sei milioni di ebrei uccisi sono caduti in una guerra spietata almeno cinquanta milioni di altri uomini, donne e bambini, e più di dieci milioni di questi appartenevano al popolo tedesco»19Id., Pagine sparse, in OC II, pp. 1469-1560. .
Ma torniamo al punto da cui siamo partiti. La parola “offesa” compare per la prima volta in un passaggio all’inizio di Se questo è un uomo: «Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa: la demolizione di un uomo»20Id., Se questo è un uomo, in OC I, p. 18. . Quella citazione, giustamente ripresa da molti per sottolineare come sia difficile parlare del Lager, noi la leggiamo in una prospettiva diversa: da un lato ci aiuta a cogliere la valenza morale di una condizione estrema e concretissima - i deportati appena entrati nel sistema Lager, che vedono specchiato negli altri il proprio stato di degradazione -, dall’altro contiene un richiamo universale alla volontà empia di distruggere l’umano. L’”offesa” dunque non come concetto astratto né come definizione esaustiva, ma come chiave per accedere a un universo determinato ma dai confini illimitati.
Ecco allora che il titolo attribuito da Levi al capitolo del suo ultimo libro ci appare come l’incontro di due parole piene di significati, l’una al servizio dell’altra e in grado di dirci, insieme, quanto il passato, un certo passato, possa e debba contribuire a un impegno efficace di educazione civile.

Dal passato al presente

Centrale, in questa prospettiva, rimane ovviamente un libro come Se questo è un uomo sul cui statuto vale la pena soffermarsi una volta ancora. Ci si può chiedere infatti se vada considerato come un libro di memorie o come un libro di storia. Forse possiamo rispondere che è un libro di storia fondato su una fonte quasi esclusiva costituita dalla memoria dell’autore, sottoposta però a una critica rigorosa, come lo sono le fonti degli storici. 
Potrebbe però essere considerato un libro di storia anche in un’accezione diversa: un libro cioè dedicato a un episodio conchiuso del ‘900, da cui poter prendere oramai le distanze. E’ stato così, agli occhi dello stesso Primo Levi, per un lungo tratto del dopoguerra, fino a quando le preoccupazioni per una risorgenza del fascismo e per il succedersi di violenze di massa in varie parti del mondo non gli hanno fatto cambiare idea. «Per molti anni - leggiamo da una lettera rivolta a un gruppo di studenti - (…) ho assistito al cammino del libro: dalla reazione dei lettori e dei critici si comprendeva che veniva letto principalmente come un testo di storia, del che ero soddisfatto. Ma da una decina d’anni - siamo nel 1973 - le cose sono cambiate: dopo quanto avvenuto in Algeria, in Brasile, in Grecia, in Mozambico, dopo quanto si è saputo della Russia di Stalin, libri come il mio non si leggono più con distacco, perché, purtroppo, rispecchiano fatti non di ieri, ma di oggi»21Primo Levi a Alberto Lanzi, 8 settembre 1973, Archivio Primo Levi, Corrispondenza, 1941-1987 [1999]. . E tanto meno si poteva leggere con distacco l’altro libro di Levi - I sommersi e i salvati del 1986 - scritto con l’intento specifico di scuotere i lettori e di dialogare con loro, nella consapevolezza che non vi fosse soluzione di continuità fra quanto era accaduto quarant’anni prima e quanto la storia stava riproponendo «sotto i nostri occhi»22Id., I sommersi… cit., p. 1274.
Nel frattempo si manifestava un fenomeno paradossale: più risultava evidente l’attualità della letteratura e della riflessione sullo sterminio, più la memoria di Auschwitz e la sua capacità di servire da monito si andavano indebolendo; è stato questo uno dei crucci maggiori di Levi negli ultimi anni della sua vita. E si era, in quel periodo, prima che la caduta del comunismo sovietico e lo sviluppo dei nuovi mezzi di comunicazione creassero le condizioni perché, dopo decenni di silenzio, la denuncia dello sterminio, non solo contro gli ebrei, diventasse un caposaldo della cultura occidentale tra gli anni ’90 del ‘900 e il nuovo secolo. Quelle prime debolezze e la discontinuità memoriale, dovuta al fatto che un'intera generazione era rimasta quasi all’oscuro delle atroci vicende vissute negli anni della seconda guerra mondiale, avrebbero poi contribuito, insieme a molto altro, al disamoramento per la memoria della Shoah - come chiamarlo altrimenti? - cui stiamo assistendo ora, anche nell’opinione presumibilmente più sensibile. 
Levi, di fronte alle crescenti difficoltà a trasmettere la propria esperienza ha costantemente manifestato forti preoccupazioni; sulle quali sì sono innestate le dolorose considerazioni svolte dopo l’invasione israeliana del Sud del Libano nel 1982 decisa dal governo Begin. «Neppure una guerra - denunciava - giustifica la protervia sanguinosa che Begin e i suoi hanno dimostrato»23Ibidem. . E per questo «Israele [stava] rapidamente precipitando nell’isolamento totale. E’ un fatto tremendo, mai accaduto prima d’oggi»24Id., Intervista a Gianpaolo Pansa (1982), in OC III, p. 304. commentava, e paventava le conseguenze che ne sarebbero derivate per gli ebrei nel loro insieme e per quelli della diaspora più in particolare. Anche se mai avrebbe potuto immaginare gli effetti difficilmente reversibili - fra disamoramento, appunto, e ripresa dell’antisemitismo - che sul rapporto con gli ebrei e la loro storia avrebbero prodotto le attuali vicende di Israele e Palestina. E neppure avrebbe potuto prevedere l’altro paradosso di un mondo come il nostro, in cui il moltiplicarsi di stragi sempre più vicine all'Europa, invece di esaltare la funzione pedagogica dello sterminio nazista com’era sembrato possibile nell’ultimo decennio del secolo scorso, avrebbe finito invece per farne impallidire la memoria. Anche questo un segno doloroso dei nostri tempi, frutto, più che di un inadeguato impegno a ricordare il passato - pur sempre necessario -, di un drammatico passaggio di fase.

Ecco qui alcuni esempi: «Ripensando con il senno del poi a quegli anni (…) - scrive Levi ne I sommersi e i salvati - ci si sente combattuti fra due giudizi: abbiamo assistito allo svolgimento razionale di un piano disumano, o ad una manifestazione (unica, per ora, nella storia, e tuttora mal spiegata) di follia collettiva? Logica intesa al male o assenza di logica? Come spesso nelle cose umane, le due alternative coesistevano. Non c’è dubbio che il disegno fondamentale del nazionalsocialismo aveva una sua razionalità: la spinta verso Oriente (vecchio sogno tedesco), la soffocazione del movimento operaio, l’egemonia sull’Europa continentale, l’annientamento del bolscevismo e del giudaismo, che Hitler semplicisticamente identificava fra loro, la spartizione del potere mondiale con Inghilterra e Stati Uniti, l’apoteosi della razza germanica con l’eliminazione «spartana» dei malati mentali e delle bocche inutili: tutti questi elementi erano fra loro compatibili, e deducibili da alcuni pochi postulati già esposti con innegabile chiarezza nel Mein Kampf. Arroganza e radicalismo, hybris e Gründlichkeit; logica insolente, non follia. Odiosi, ma non folli, erano anche i mezzi previsti per raggiungere i fini: scatenare aggressioni militari o guerre spietate, alimentare quinte colonne interne, trasferire intere popolazioni, o asservirle, o sterilizzarle, o sterminarle». Ed «è degno di meditazione il fatto che tutti, il maestro e gli allievi, siano usciti progressivamente dalla realtà a mano a mano che la loro morale si andava scollando da quella morale, comune a tutti i tempi ed a tutte le civiltà, che è parte della nostra eredità umana, ed a cui da ultimo bisogna pur dare riconoscimento»25Id., I sommersi… cit., pp. 1211-1212. 
Non credo sia qui il caso di sottolineare le analogie fra presente e passato, perché c’è qualcosa che va oltre l’analogia. Si tratta di tendenze delle quali non stentiamo a riconoscere la vicinanza perché le sentiamo parte del nostro mondo. Come quella ad esempio a dare per buone e a diffondere su larga scala versioni incredibili della realtà, che sarebbe poco definire falsificazioni. O ancora il fatto, che oramai tende a ripetersi regolarmente, per cui alla guerra si affianca, intrecciandosi in modo inestricabile, una componente esorbitante di “violenza inutile” - così l’ha definita Levi -, di violenza cioè senza scopo e senza limiti, esercitata per puro compiacimento; si tratta di due forme di violenza interconnesse, difficili da distinguere ma differenti: è più che lecito infatti non voler considerare la seconda come mero incrudelimento quasi inevitabile della prima. La nostra cultura, se pure non necessariamente migliore, è senz’altro diversa da quella di altre epoche: ha imparato a distinguere l’utile dall’inutile. 
Ripercorrendo dall’interno la sua esperienza di deportato, Levi ci ha inoltre fatto vedere che, in una società sviluppata e di massa come quella tedesca degli anni di guerra, gli esecutori dei crimini più efferati non erano mostri ma persone fatte «della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi (…); avevano il nostro viso, ma erano stati educati male»26 Ivi, pp. 166-167. . Così pure, in una realtà come quella di allora, che per molti versi possiamo considerare a noi contemporanea, anche la tecnologia giocava un ruolo tutto speciale: contribuiva ad accentuare la forza distruttiva delle azioni più malvagie e sembrava poter deresponsabilizzare chi ne era autore e chi di esse si serviva. E infine - quanto meno in questo piccolo repertorio - Levi definiva nel 1976 quale «scopo moderno e mostruoso» dei Lager, affiancato «all’antico scopo di eliminare e terrificare gli avversari politici», «quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture»27Id., Appendice a Se questo… cit., pp.  292-293.  . E parlava di tale peculiare obiettivo della Germania nazista come di «qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell’umanità»28Ibidem. . Peccato che ad affermare tale forma di unicità si sbagliasse, non potendo prevedere quanto sarebbe successo nel mondo “moderno e mostruoso” di non molto tempo dopo.

Contagi

L’opera di Levi ci dice anche molto su come l’”offesa” si diffonde e si riproduce, e su come si ripercuote sul mondo circostante. In una pausa di meditazione nelle prime pagine de La tregua, subito dopo aver descritto l’apparizione dei quattro soldati russi a cavallo alle porte di Auschwitz, l’autore commenta: l’offesa «dilaga come un contagio, (…) è un’inesauribile fonte di male»29Id., La tregua cit., p. 310. . Qui il “male” non è inteso prioritariamente come una categoria morale, ma come una malattia - certo moralmente connotata - che si diffonde per trasmissione diretta. Quando Levi pubblicava nel 1963 il libro sul suo ritorno da Auschwitz, il nazismo aveva prodotto e - a suo avviso - stava ancora diffondendo i suoi frutti nefasti. E anche dopo molto tempo, nel 1986, data dell’intervista da cui è tratta la citazione seguente, lo scrittore poteva affermare: «a partire da osservazioni mie o fatte da altri sulla lenta metamorfosi che il concetto di Lager andava attraversando[,] ci siamo accorti un po’ tutti, in misura maggiore o minore, che in qualche modo, incompleto e approssimativo, o addirittura minaccioso, il Lager stava continuando. Continuava sotto varie forme, in altri paesi in modo addirittura spudorato come imitazione dei Lager nazisti. Continuava in istituzioni un po’ dappertutto con un riaffiorare di quella violenza inutile a cui ho dedicato un capitolo. Per tutti questi motivi mi era sembrato che i tempi fossero maturi per rammentare in modo brutale alla generazione attuale le cose a cui noi abbiamo assistito»30Id., Intervista a Annie Sacerdoti (1986), in OC III, p. 604. . Alla generazione attuale e a quelle successive, a partire da un’attenta considerazione di nuove e atroci esperienze destinate a ripresentarsi via via.
E, prosegue Levi ne La tregua con dolore evidente, «nessuno ha mai potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa»31 Id., La tregua cit., p. 310.  e quella sua capacità di proliferare. In questo caso il “noi” si riferisce alla «nostra generazione»32Ibidem. e al «mio popolo»33Ibidem. : per entrambi un «tremendo privilegio»34Ibidem. , destinato a tradursi in una terribile sofferenza nel momento in cui i componenti di quella generazione e di quel popolo fossero stati chiamati in causa come sopravvissuti e come ebrei: quando cioè la loro memoria e la loro esperienza fossero state svalutate, vilipese o strumentalizzate; da chiunque.

Veniamo ora a un altro ambito su cui lo scrittore ci offre sollecitazioni ulteriori a fermarci e a guardarci intorno. In quel passaggio particolarmente ispirato de La tregua appena citato, forse la prima occasione in cui poter guardare Auschwitz da fuori, subito dopo la liberazione, si può cogliere un’iniziale approssimazione d’insieme degli effetti prodotti dall’”offesa". L’”offesa” appena subita, capace però di estendersi per contagio in ogni direzione, «spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti»35Ibidem. : basta considerare come la condizione degli esseri umani possa venire stravolta dalla morte incombente, dalla fame, da un potere che li metta volutamente gli uni contro gli altri o riesca a corromperli per soggiogarli al proprio volere. «Risale come infamia sugli oppressori»36Ibidem. : trascina cioè in un abisso morale chi crede di trovarsi più in alto, al riparo della propria forza. «Si perpetua come odio nei superstiti»37Ibidem. : lascia cioè una traccia maligna, insanabile, negli animi induriti di chi viene dopo. «E pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti»38Ibidem. : qui il termine “pullulare”, altrove utilizzato ad esempio per alludere alle «allucinazioni attinte da falde incredibilmente profonde» dipanate «senza fine»39Id., Racconti e saggi, in OC II, p. 1060. e senza filtri da Franz Kafka, dà il senso di forze incomprensibili e prive di controllo in un orizzonte esteso a tutti, protagonisti in un senso o nell’altro dell’”offesa”, e suoi spettatori.
E che cosa genera il pullulare dell’”offesa”? Esso si manifesta «come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia»40Id., La tregua cit., p. 310. . Tutte disposizioni d’animo con un preciso corrispettivo nella sfera delle sensazioni, che possono essere sperimentate da ognuno di noi e che ci aiutano a cogliere i risvolti concreti di un atteggiamento tante volte denunciato, lasciando però chi vi assiste completamente disarmato: l’indifferenza. L’indifferenza non è che la maschera di quanto l’”offesa” produce nel profondo di chi assiste ma non vuole sentirsi coinvolto. Ed è in quelle profondità che bisogna invece immergersi per combatterla.

Resta ora, per concludere, da rendere esplicita un’ultima domanda e da cercare qualche risposta. Se è vero che lo sguardo di Levi va oltre l’esperienza di cui è stato vittima, fino a dove e a quali ambiti possono estendersi le sue osservazioni? Alla strage nazista egli attribuisce una natura «tremendamente esemplare»41Id., I sommersi… cit., p. 1152. . E in proposito precisa: il sistema concentrazionario messo in opera da Hitler «rimane (…) un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai così tante vite sono state spente in così breve tempo e con una così lucida combinazione di impegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà»42 Ivi, p. 1154. . Al punto che «dopo il Gott mit uns nazista tutto è cambiato»43 Ivi, p. 1275. . Ma al di là di questa sorta di atroce primato e dell’aura, storicamente contrastata, che si è venuta a creare intorno alla Shoah e della quale assistiamo a un drammatico appannamento, va considerato negli ultimi tempi un cambiamento importante.
E’ come se la distanza fra lo sterminio nazista e gli episodi più recenti di violenza di massa - in Ucraina, in Medio Oriente, in Sudan, nel Xinjiang e in altri numerosi luoghi - si sia ridotta di non poco, in confronto a quanto era stato nei decenni precedenti. Nel passato più lontano, di un confronto con il Lager si è discusso ad esempio - suscitando peraltro l’esplicito disaccordo di Levi - di fronte alle sofferenze prodotte da istituzioni come la grande fabbrica capitalistica o il manicomio. Lui stesso ha preso in considerazione i campi sovietici sottolineando le analogie, ma anche le differenze con l’esperienza nazista. Di quanto era successo in paesi lontani come la Cambogia, in occidente non si era voluto sapere granché ed è stato quindi difficile ragionare con cognizione di causa. Quanto accade oggi ci tocca invece più direttamente per ragioni di vicinanza geografica, perché sono implicati società e paesi sviluppati più simili ai nostri, per il ruolo accresciuto dei moderni mezzi di offesa e di comunicazione, per i rischi che tutti quanti corriamo. Le stragi, la fame, le devastazioni del territorio, l’eradicazione delle identità hanno in comune quello che Levi aveva indicato come «la demolizione di un uomo»44Id., Se questo… cit., p. 18.  - obiettivo e effetto ultimo dell’”offesa” - e vengono perseguite con metodi aggiornati ai mezzi tecnologicamente più innovativi, come i droni o il riconoscimento facciale.
Ecco allora che la riduzione della distanza dalla Shoah, più che il frutto - pur perseguito in molti casi - di una banalizzazione voluta dello sterminio nazista, è prima di tutto il risultato di un cambiamento nella realtà. E il fatto che l’opera di Levi possa aiutarci a superare quella distanza e a interpretare quanto sta succedendo ora dipende anche dalla sua prospettiva universalistica, dal fatto cioè che non ha mai chiuso Auschwitz in un recinto. Questo naturalmente senza dimenticare che ogni vicenda è diversa dalle altre e che, senza trascurare i suggerimenti di Levi, è nostra e solo nostra la responsabilità di misurarci col presente.


1P. Levi, Ad ora incerta, in Opere complete II, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2016-2018, p. 775.
2Id., I sommersi e i salvati, in OC II, p. 1155.
3Id., Il sistema periodico, in OC I, p. 902.
4Id., La tregua, in OC I, p. 310.
5Id., Intervista concessa a Marco Vigevani (1984), in OC III, p. 443.
6Id., I sommersi... cit., p. 1156. 
7Id., Vizio di forma, in OC I, p. 813.
8Ivi, p. 671.
9Id., Il sistema... cit., p. 962.
10Id., I sommersi... cit., p.1160.
11Ivi, p. 1161.
12Ivi, p. 1161.
13Ivi, p. 1154.
14Id., Intervista concessa a Graziella Granì (1981), in OC III, p. 219.
15Ibidem.
16Id., Ad ora... cit., p. 775.
17Id., I sommersi... cit., p. 1155.
18Id., La tregua cit., p. 400. 
19Id., Pagine sparse, in OC II, pp. 1469-1560.
20Id., Se questo è un uomo, in OC I, p. 18.
21Primo Levi a Alberto Lanzi, 8 settembre 1973, Archivio Primo Levi, Corrispondenza, 1941-1987 [1999].
22Id., I sommersi… cit., p. 1274.
23Ibidem.
24Id., Intervista a Gianpaolo Pansa (1982), in OC III, p. 304.
25Id., I sommersi… cit., pp. 1211-1212. 
26 Ivi, pp. 166-167.
27Id., Appendice a Se questo… cit., pp.  292-293. 
28Ibidem.
29Id., La tregua cit., p. 310.
30Id., Intervista a Annie Sacerdoti (1986), in OC III, p. 604.
31 Id., La tregua cit., p. 310. 
32Ibidem.
33Ibidem.
34Ibidem.
35Ibidem.
36Ibidem.
37Ibidem.
38Ibidem.
39Id., Racconti e saggi, in OC II, p. 1060.
40Id., La tregua cit., p. 310.
41Id., I sommersi… cit., p. 1152.
42 Ivi, p. 1154.
43 Ivi, p. 1275.
44Id., Se questo… cit., p. 18. 
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