Primo Levi a scuola

Pubblichiamo l’intervento di Fabio Levi al convegno 16 Ottobre 1943. Memoria della deportazione degli ebrei di Roma organizzato dalla Camera dei Deputati il 16 ottobre 2013.

In un articolo su "La Stampa" del 9 novembre 1978 a proposito della Notte dei cristalli, il pogrom scatenato da Hitler contro gli ebrei tedeschi quarant’anni prima, Primo Levi scriveva: "E’ lo stesso immondo intreccio di violenza, scherno e frode che ritroveremo cinque anni più tardi, a Roma, con la macabra beffa dei cinquanta chilogrammi d’oro che gli ebrei dovranno consegnare a Kappler per stornare la deportazione: ma pochi giorni dopo scatta la caccia all’uomo (e alla donna, e all’infermo, e al bambino) e più di mille ebrei romani vengono deportati nel campo della morte".
Quell’"immondo intreccio di violenza, scherno e frode": parole dure, scelte con cura, che ci aiutano a ricordare e a capire il senso di quanto avvenne il 16 ottobre 1943. Ma cosa vuol dire che ci aiutano a capire? E perché è per noi così naturale chiedere a Primo Levi di accompagnarci nel nostro viaggio di conoscenza verso l’estremo?

Nel ’78 Levi scriveva spesso su "La Stampa". Era oramai un personaggio pubblico, ascoltato, riconosciuto. Ma nelle scuole aveva iniziato ad andare molto prima, quando ancora non era così noto. Ci andava a svolgere coscienziosamente il suo terzo mestiere: oltre al chimico e allo scrittore, quello di testimone. Non amava vestire i panni del professore, preferiva presentarsi come una persona fra le tante finite nei lager hitleriani. Non teneva conferenze sul nazismo e sui campi di sterminio; si limitava invece a raccontare della propria esperienza di ebreo deportato, rispondendo alle domande dei ragazzi, anche alle più difficili e imbarazzanti; al prezzo di rivivere ogni volta sofferenze mai sopite. Sapeva ascoltare e cercava il dialogo con tutti. La sua preoccupazione maggiore era che qualcuno potesse non credere alle sue parole. Un cruccio persistente, quasi un’ossessione, destinati a crescere con il passare degli anni. E lo sforzo di colmare per quanto possibile la distanza dai propri interlocutori gli sembrava sempre più arduo via via che alla generazione dei figli si sostituiva quella dei nipoti.
Il suo ragionare pacato colpiva la mente e il cuore degli ascoltatori. E può sorprendere, ma è così ancora oggi; come quando Se questo è un uomo viene riproposto con la dovuta cura sui banchi di scuola o, ad esempio, quando ragazzi nati in varie parti del mondo hanno letto e fatto prorpi di recente i suoi testi in più di dieci lingue davanti ai propri compagni di numerose scuole torinesi: giovani immigrati nelle condizioni più diverse, pronti a misurare il bene e il male della loro terra di asilo. Sarebbe però un colpevole errore sottovalutare le proccupazioni già di Primo Levi su quanto si vada accentuando con il passare degli anni la distanza fra le nuove generazione e lo sterminio; questo malgrado il ritorno di interesse per le proprie matrici della nuova Europa uscita dalla svolta dell’89 abbia fatto della Shoah un riferimento ineludibile della cultura contemporanea. Semmai possiamo chiederci se, scavando più a fondo di quanto siamo abituati a fare proprio nell’opera di Levi, non se ne possano ricavare indicazioni ulteriori e meno scontate, utili a contrastare quel progressivo allontanamento a favorire nei più giovani la riflessione sulle esperienze più dolorose del ‘900.
Ho accennato poco fa al modo, non certo ovvio, con cui lo scrittore offriva la propria testimonianza, frutto di una riflessione accurata e di un impegno instancabile. Perché non trarne ispirazione? Visto che anche noi, per nostra intima convinzione, ci facciamo spesso mediatori di conoscenza su temi affini a quelli trattati da Levi; e dunque anche noi possiamo considerarci testimoni, indiretti certo, ma testimoni.
Oltre a questo c’è però anche tanto altro, in particolare se sappiamo leggere in profondità tutta la sua opera e in particolare le pagine del suo ultimo libro I sommersi e i salvati. Quel libro propone riflessioni di grande originalità maturate nel corso di molti anni, cui proprio i dialoghi condotti nelle scuole di tutta Italia hanno senz’altro offerto un importante contributo. E le propone con l’esplicito intento di dare all’impegno testimoniale di una vita una forza accresciuta, di attribuirgli un’efficacia capace di durare nel tempo, anche oltre l’esistenza stessa del testimone. Chiediamoci allora: da cosa deriva quella forza? Come è possibile che le pagine di Levi si mostrino tuttora capaci di guidare i lettori lungo un viaggio irto di difficoltà e di pericoli attraverso uno dei luoghi più oscuri della storia e, nello stesso tempo, di condurre ognuno di essi verso una progressiva scoperta di sé?

Vale in proposito una prima considerazione. Levi amava definirsi "un uomo normale di buona memoria", sottolinendo in tal modo la tensione fra la sua normalità di uomo fra tanti e la qualità particolare della sua memoria. Ed era la sua una definizione tanto più impegnativa, in quanto egli conosceva a fondo i limiti e le fragilità della memoria umana. Essere "di buona memoria" era ed è molto difficile. Ricordare e raccontare il vero valendosi essenzialmente delle proprie facoltà impone di applicare una grande capacità critica in primo luogo a se stessi.
Al riguardo Se questo è un uomo costituisce una prova straordinaria: pur attraverso lo sguardo limitato e unilaterale di uno Haftling fra i tanti, Levi è riuscito a darci un quadro d’insieme di Auschwitz e, soprattutto, della condizione dell’uomo nel Lager di una precisione e di una ricchezza straordinarie. Lo stesso vale per le numerose altre occasioni in cui l’impegno testimoniale ha guidato la sua mano di scrittore; e non solo sulla deportazione. Né hanno fatto velo a quella capacità critica, come viceversa gli è stato di recente rimproverato, la sua stringatezza o la sua abilità nel far parlare i silenzi, che anzi gli studiosi maggiori della sua opera hanno considerato fra le cifre più originali del suo talento e della sua autonomia di pensiero.
I sommersi e i salvati non sono da meno. Il libro inizia descrivendo quanto e come la memoria possa essere fallace. Ma prosegue senza per questo rinunciare a scavare una volta di più nei ricordi dell’autore-protagonista. Quei ricordi sono posti a confronto, certo, con i ricordi di altri e con i risultati delle prime ricerche degli storici. L‘esperienza del deportato Levi resta tuttavia luogo essenziale di riferinento delle riflessioni più originali del Levi scrittore. Essere di "buona" memoria vuole dire a quel punto per lui saper scavare nei ricordi anche oltre la verità dei fatti, per scoprire verità ulteriori studiando il concreto comportamento degli uomini in condizioni estreme.
In questo Levi non pretende in alcun modo di indossare i panni dello storico; anche se ci sarebbe da chiedersi se molti storici non abbiano sinora sottovalutato la sua opera, e in particolare la straordinaria perspicuità de I sommersi e i salvati, per il contributo che essa ha dato proprio ad una ricostruzione veritiera e profonda della Shoah.

Ed eccoci alla seconda osservazione. Ogni atto di testimonianza sul Lager può e deve assumere una precisa valenza morale. E proprio questo ci accomuna qui oggi. Ma Levi fa un passo oltre. Non si limita a fare della propria testimonianza un racconto di verità volto a suscitare un salutare allarme nei suoi interlocutori, il che già rappresenta un fatto di grande rilievo. Ci aiuta anche a comprendere che la verità sul Lager, insieme a una descrizione puntuale dei fatti, deve aspirare a comprendere la verità sull’uomo.
Nella condizione estrema dei campi, i dilemmi etici in cui vittime e perpetratori si dibattevano, grazie alla lucida rappresentazione offertaci dallo scrittore torinese, ci appaiono in una forma così nitida e stringente da renderci partecipi della straordinaria complessità delle alternative fra le quali ognuno doveva volta per volta compiere le proprie scelte. Si pensi allo scambio imposto fra privilegi concessi dai nazisti e corresponsabilità delle vittime descritto del capitolo sulla zona grigia o come potesse influire sulla condizione degli ex-deportati il paradosso – illustrato sempre ne I sommersi e i salvati – di trovarsi a provare vergogna per il fatto di essere sopravvissuti.
Si tratta ovviamente di racconti e riflessioni sul passato, ma il fatto che i problemi morali proposti al lettore si riferiscono a situazioni drammaticamente reali non può non richiamarci alla nostra condizione di oggi. In questa prospettiva eventi che inevitabilmente si allontanano sempre più dalla nostra percezione diretta tendono a mantenere una loro forte attualità, finiscono per farsi contemporanei e per coinvolgerci in prima persona. La sensibilità alla dimensione etica delle vicende connesse allo sterminio aiuta dunque a restituire nitidezza a quanto il trascorrere del tempo tende a portare fuori fuoco, permette di costruire un ponte meno difficile da percorrere fra le generazioni.

Per concludere una terza annotazione sull’opera di Levi, utile ad orientarci nel lavoro con i più giovani.
Se questo è un uomo è stato a lungo considerato esclusivamente come un’opera di testimonianza, sottintendendo in tal modo che le qualità di Levi scrittore si sarebbero manifestate in forma più compiuta nei suoi lavori successivi. Solo con il passare degli anni si è invece affermata la consapevolezza, ora largamente condivisa, dello straordinario valore letterario anche di quel primo libro, capace proprio per questo di lasciare tracce tanto profonde nei suoi lettori. Un ragionamento analogo vale anche per l’ultimo libro di Levi, I sommersi e i salvati, il cui taglio saggistico non toglie nulla alla qualità della scrittura e dell’impianto argomentativo.
Primo Levi aveva sperimentato in prima persona nel Lager – e non esita a raccontarcelo – quanto il blocco della comunicazione imposto dai nazisti potesse diventare parte essenziale del processo di disumanizzazione dei prigionieri. Viceversa egli sapeva con non minore certezza quanto la cura del dialogo potesse esaltare la naturale vocazione degli esseri umani ad entrare in relazione reciproca. In questa prospettiva il suo talento di scrittore avrebbe potuto svolgere un servizio importante. Di qui uno sforzo senza soste per essere compreso dai lettori, il lavoro di tutta una vita sul linguaggio e sulle parole, reso tanto più ricco dal costante interesse per i problemi della traduzione.
Dunque un altro terreno su cui operare nel tentativo di ridurre le distanze dai propri interlocutori per il presente e per un imprevedibile futuro.

Per concludere. Riguardo ai fatti del 16 ottobre abbiamo letto poco fa quelle poche parole: "un immondo intreccio di violenza, scherno e frode"; un solo aggettivo e quattro sostantivi che ci hanno condotto immediatamente al cuore dell’evento che oggi stiamo ricordando.
Ora però siamo forse in grado di cogliere altre dimensioni di quel breve rimando, perché sappiamo collocarlo nel contesto di un’opera volta in ogni momento a stabilire un ponte con i propri interlocutori, a superare una distanza crescente con il tempo della storia. In molti modi: cercando con determinazione la verità, scegliendo la dimensione etica del reale come terreno privilegiato d’incontro, mettendo il talento dello scrittore al servizio di una comunicazione più diretta.
Primo Levi non amava considerarsi latore di alcun messaggio. Voleva però con forza che le sue parole suscitassero una reazione, un giudizio, un pensiero. Se dunque non avrebbe senso cercare lezioni o voler fare come lui, la riflessione sul suo modo di porsi verso gli altri, e in particolare verso i più giovani, può almeno aiutarci ad essere più avvertiti su ciò che a noi e solo a noi spetta fare.


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