Pensare con le mani

di Anna Bravo

Il testo Pensare con le mani fa parte del volume L'integrazione degli ebrei: una tenace illusione? Scritti per Fabio Levi, Silvio Zamorani Editore, Torino 2019 e viene qui pubblicato, per gentile concessione dell'editore, in ricordo di Anna Bravo, recentemente scomparsa.

La ricordiamo con affetto e gratitudine, per il suo grande contributo allo studio e alla divulgazione dell'opera di Primo Levi non meno che per la sua preziosa amicizia, su cui il Centro Studi Primo Levi ha sempre potuto contare.

Vi propongo alcune notazioni sparse intorno alla funzione e ai gesti delle mani, della mano in Lager, così come compaiono nel racconto leviano di Auschwitz, in particolare in Se questo è un uomo. L’ho scelto perché, felice coincidenza, a suggerirmelo questa primavera è stato proprio Fabio Levi, insieme con Bruna Bertani e sulla scorta delle riflessioni di Paola Valabrega. E l’ho scelto con fiducia, perché tutti sappiamo che porre domande all’opera di Primo Levi è una caccia al tesoro che sempre ci fa ricchi. E che nella sua narrazione la fedeltà al corpo e ai gesti, alla loro materialità e dignità è una costante.

Per me era (e in parte è tuttora) un tema nuovo. Avevo lavorato sull'appropriazione totalitaria del corpo nel sistema concentrazionario, ma soprattutto sul corpo femminile che in particolari situazioni e in particolari esperienze realizza un assoluto imprevisto: pur nell’oppressione e nella vulnerabilità diventa risorsa e terreno di resistenza.

Per le donne la cura di sé, che anche per gli uomini può aiutare a non perdersi, ha una qualità specifica: conservare un barlume di femminilità è la prima condizione per tenere vivo un legame sia pure labile con quel che si è state e si spera di tornare a essere. Persino ad Auschwitz, c’era chi si ingegnava dal primo giorno a adattare alle proprie misure gli indumenti assegnati a casaccio, usando aghi fatti con schegge di legno e fili ricavati dalle coperte; chi strappava pezzi di stoffa dagli abiti lunghi per accomodarseli in testa e apparire più aggraziata - mani sapienti, mi dico oggi ripensandoci. C’era chi rinunciava a mangiare un briciolo di margarina per ammorbidire la pelle e le labbra bruciate dal freddo1Vedi M. Goldenberg, Le memorie dei sopravvissuti di Auschwitz. Il peso del genere, e Lidia Rosenfeld Vago, Un anno nel buco nero del nostro pianeta terra. Un racconto personale, in D. Ofer - L.Weitzmann (a cura di), Donne nell’Olocausto, Le Lettere, Firenze 2001.  – in Lager quel che sembra frivolo può essere eroico, quel che sembra incongruo può essere saggezza autoprotettiva2A Ravensbrück, per esempio, alcune “organizzano” bigodini con il filo di ferro per farsi una rudimentale messa in piega cfr. L. Beccaria Rolfi, A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Torino, Einaudi, 1978, p.189 . Sembra incongruo che si ceda la razione giornaliera di pane in cambio di un foulard stracciato, ma, scrive Lucia Schmidt-Fels, «Noi donne siamo strane creature: basta una piccolezza a salvarci dalla follia. Persino dall’inferno. Sì, persino dall’inferno», in Deportiert nach Ravensbrueck, citato in G. Bock, Le donne nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 2001. .

Il corpo, i gesti, i sentimenti

Quando ho cominciato a riflettere sulle mani in Lager, mi si è presentata immediatamente una quantità di spunti. A conferma di quanto sia inesauribile il pensiero di Levi. L’abbiamo detto in molti e molte, cosi come abbiamo insistito sul timbro pacato del suo racconto, sulla forza della ragione che lo innerva e lo orienta.

Ma per questo tema ha senso ricordare anche altri aspetti.

Quel che rende così fertile la narrazione di Primo Levi è in primo luogo il suo rapporto con il corpo, e nel corpo con le mani. Per molti prigionieri di classe media colta, per moltissimi intellettuali e dirigenti politici, il corpo era materia opaca, luogo della vulnerabilità o della forza bruta. Del corpo si diffidava, e in Lager con ragione: è sulla sua riduzione alla condizione animale, a Stück, a cosa, che fa leva il sistema concentrazionario per ottenere un controllo totale dei comportamenti e per scoraggiare nella popolazione eventuali impulsi di solidarietà verso i prigionieri.

Ma si diffidava anche perché il corpo massificato del Lager era l’antitesi del modello di protagonismo individuale e di controllo intellettuale radicato nella cultura patriarcale, che pone nell’intelletto e nello spirito il terreno elettivo della libertà e della resistenza alla coazione. E perché il corpo della tradizione occidentale era per definizione una finitezza che doveva superarsi in una dimensione sovrapersonale, o trascendente.

Succede allora che in tante memorie il corpo sia narrato in termini di lotta per non cedere ai suoi imperativi; che dei dialoghi e fantasie sul cibo si racconti con fastidio, addirittura con disprezzo3Eppure quei discorsi non sono necessariamente un automatismo ossessivo, possono essere un veicolo di comunicazione fra gruppi diversi, uno strumento che aiuta a prefigurare il futuro: il cibo di cui si parla è quello di casa, la tavola imbandita è lo scenario del ritorno, e il legame simbolico fra pane e libertà vive da secoli nella cultura popolare. .

Per Primo Levi non è così. È chimico, e sa quanto tutti i gesti della sua professione passino attraverso il corpo, e nel corpo la mano. Che misura, versa, pesa, divide, mischia. È stato (e sarà) alpinista, e la montagna gli ha insegnato che se lo si ascolta, se non si pretende di dominarlo, il corpo non ti tradisce. Il che gli permette di apprezzare, e di narrare con sovrana tranquillità quel che ad altri giovani intellettuali sarebbe parso avvilente4Jean Amery (Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987) ricorda la straordinaria euforia spirituale, la commozione, il desiderio di spiritualità che lo assalgono nel momento in cui divora un piatto di semolino dolce ricevuto in dono da un guardiano; ma ai suoi occhi è un’esaltazione ingannevole, un vero e proprio stato di ebbrezza che lascia dietro di sé «un desolante sentimento di vuoto e di vergogna». : l’effetto del primo cucchiaio di zuppa inghiottito dopo ore passate scalzi e nudi nel gelo dell’inverno polacco: «la beatitudine (positiva questa, e viscerale) della distensione e del calore nel ventre»5Primo Levi, Opere complete, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2016, t. I, p. 190. .

Conta, in secondo luogo, la radicale scelta narrativa di descrivere, di mostrare raccontando, anziché di spiegare. È un’apertura di credito al lettore, cui si affida il compito di riflettere sui modi in cui schiere di esseri umani come noi sono arrivate tanto in basso, e tanto miserabilmente e ferocemente. Forse c’è anche un fondo di scetticismo verso il modello della lezione, che nella sua pur necessaria esaustività potrebbe ingenerare la sensazione che tutto sia stato già pensato e scritto.

C’è in terzo luogo la preminenza assegnata ai gesti, ai movimenti, al corpo e alle sue membra – il corpo scarnito e gonfio, i piedi piagati, le mani ferite e sporche- rispetto alla descrizione/esposizione dei sentimenti.

In quarto luogo, ma innanzitutto, Primo Levi è un grande scrittore.

Comunicare

Bisogna richiamare alla mente quel che tutti sperimentiamo nella nostre relazioni quotidiane: quanto le mani siano essenziali per trasmettere con più forza un’emozione, un sentimento, un’argomentazione, per entrare in contatto con persone di cui non conosciamo la lingua. E per sopperire a un senso menomato. Milioni di disabili sanno che dove non arriva il linguaggio (e dove non arrivano gli ausili sempre più avanzati) vengono in aiuto le mani, consentendo al cieco di intuire una forma al tatto, al sordo di seguire un discorso, al muto di farsi capire. È il ruolo comunicativo della mano, che diamo per scontato.

Se per tematizzare le funzioni della mano può essere utile rifarsi alla nostra esperienza, guai a dimenticare che è imparagonabili alla crucialità che la comunicazione non verbale assume in lager.

Il lager è una babele, un coacervo di popoli e di lingue – tedesco, francese, jiddish, greco, italiano, spagnolo, polacco – che si intersecano, si urtano fra loro, confliggono senza riuscire a intendersi. E nella comprensione impossibile si trasformano da suono a rumore minaccioso, a barriera fra persona a persona, fra gruppo e gruppo. Con le sue le stratificazioni gerarchiche per linee etniche e nazionali, l’ordine senza diritto del lager punta precisamente a trasformare i sodalizi in complicità, gli aggregati in clan rivali in lotta per scalzarsi reciprocamente.

Levi ci aiuta a immaginare lo spaesamento, l’impoverimento sensoriale e mentale, il senso di impotenza di chi si vede privato della prima facoltà dell’essere umano, in un momento in cui capire e comunicare può fare la differenza fra vita e morte. Non afferrare una sola parola di tedesco è una condanna, incontrare chi parla la tua lingua è uno spiraglio nel buio, equivale a ritrovarsi. E a volte è decisivo per la sopravvivenza. Ma dove fallisce la lingua, può rimediare la mano.

Primo Levi, arrivato da poco, incontra Schlome, ragazzo ebreo partigiano polacco. Gli chiede da quanto è in Lager.

Tre anni, – e leva tre dita. […] – Qual è il tuo lavoro?

– Schlosser, – risponde. Non capisco: – Eisen; Feuer […], e fa cenno colle mani come di chi batta col martello su di unincudine. È un fabbro, dunque. […]

Bere, acqua. Noi niente acqua, – gli dico. Lui mi guarda con un viso serio, quasi severo, e scandisce: – Non bere acqua, compagno, – e poi altre parole che non capisco.

– Warum?

– Geschwollen, – risponde lui telegraficamente: io crollo il capo, non ho capito. – Gonfio, – mi fa capire, enfiando le gote e abbozzando colle mani una mostruosa tumescenza del viso e del ventre. – Warten bis heute abend –. «Aspettare fino oggi sera», traduco io parola per parola. Poi mi dice: – Ich Schlome. Du? – Gli dico il mio nome, […] mi abbraccia timidamente. L’avventura è finita, e mi sento pieno di una tristezza serena che è quasi gioia6Levi, Opere complete cit., t. I, pp. 156-57. .


 

Naturalmente la mano che comunica può essere la stessa mano che fa, lavora, aggiusta la cuccetta cercando di adeguarsi alla passione maniacale dei carnefici per l’ordine, che taglia il pane in parti esattamente uguali. Che non abbandona mai i magri averi del deportato, dalla gamella al cucchiaio. Che deve fare i conti con la costante penuria di oggetti e utensili, compresi quelli utili alla manutenzione di se stessi: con le matite, le posate, la carta, sono introvabili o vietati ago, filo, fazzoletto, pettini, saponi.

Su questa “manutenzione” le esperienze maschili e femminili, di cui molto si discute, si divaricano. Abituate alle mille incombenze quotidiane, le donne hanno maggiore dimestichezza con le tante abilità delle mani. Chi da una scheggia di legno ricava un ago deve averlo avuto per le mani. Chi trasforma uno straccio in un foulard deve aver maneggiato dei tessuti. Chi da un po’ di polvere di mattoni crea un rossetto per le guance, deve aver usato o visto usare un fard, e ora ne inventa uno per darsi un aspetto più sano.

 Per gli uomini, avvezzi a essere accuditi, praticare i “mestieri delle donne” – rammendare, cucire un bottone, lavare, stendere, pulire – è un’impresa improba, è inoltrarsi in terra incognita, ritrovarsi con le due proverbiali mani sinistre. Alcuni l’hanno notato.

La mano nemica

Nell’infinità di gesti che si compiono in Lager, si può provare a distinguere fra la mano nemica e la mano amica.

L’azione ostile è la norma in Lager. E la mano è per lo più quella del kapo. Che impugna un bastone, che scaglia a freddo un pugno capace di uccidere, che strattona, trascina, allontana. E che umilia, irride, offende. Quando un Kapo compie il gesto minaccioso in uso in Germania, mostra il frustino, palpa il ventre con esibito disgusto preconizzando al deportato la selezione, completa il compito di azzerare l’essere umano che il sistema concentrazionario si è dato e gli ha dato. Alcuni lo svolgono con voluttà.

Primo Levi è in infermeria:

L’infermiere indica all’altro le mie costole, come se io fossi un cadavere in sala anatomica; accenna alle palpebre e alle guance gonfie e al collo sottile, si curva e preme coll’indice sulla mia tibia e fa notare all’altro la profonda incavatura che il dito lascia nella carne pallida, come nella cera. Vorrei non aver mai rivolto la parola al polacco: mi pare di non avere mai, in tutta la mia vita, subito un affronto più atroce di questo7Ibidem, p. 173. .

Poi Levi viene candidato a entrare nel Kommando Chimico, e ne incontra il kapo, Alex. È un uomo basso di statura, debole di aspetto, che odia e invidia gli “Intelligenten”. Devono attraversare uno spiazzo ingombro di travi e di tralicci metallici.

Il cavo d’acciaio di un argano taglia la strada, Alex lo afferra per scavalcarlo, Donnerwetter, ecco si guarda la mano nera di grasso viscido. Frattanto io l’ho raggiunto: senza odio e senza scherno, Alex strofina la mano sulla mia spalla, il palmo e il dorso, […] sarebbe assai stupito, l’innocente bruto Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo suo atto io oggi lo giudico, lui e Pannwitz e gli innumerevoli che furono come lui, grandi e piccoli, in Auschwitz e ovunque8Ibidem, p. 223.

.

Per alcuni, non pochi, deportati e deportate, la mano nemica è stata quella che sbucava dalla manica di un camice bianco. Inebriati dalla disponibilità illimitata di corpi-cavia, i medici “sperimentatori” applicano pratiche altrimenti impensabili, in cui convivono interessi medici, militari, farmaceutici, e personali curiosità e fissazioni9Sulle sperimentazioni, cfr. R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1995, cap. IX. . La mano taglia, castra, inocula germi, spezza un’articolazione, costringe a inghiottire nuovi farmaci, misura quanto ci vuole per morire di congelamento, di fatica, di esposizione ai raggi X.

Nel primo dopoguerra, nascerà dall’orrore per qUeste pratiche il Codice di Norimberga, in cui si fissano i criteri etico-giuridici per qualsiasi tipo di intervento medico.

Invece no

Prodigiosamente, in Lager si può trovare anche la mano amica. E tanto più colpisce quanto meno ci si aspettava di incontrarla.

Qui spicca Resnyck, polacco, trent’anni, robusto, solido. Al cantiere dove sono comandati a lavorare bisogna scaricare dal vagone un enorme cilindro di ghisa. «A noi si svuota il cuore»10Levi, Opere complete cit., t. I, p. 187. . Bisogna portare traversine di 80 chili per costruire nel fango molle la via su cui il cilindro verrà sospinto colle leve fin dentro la fabbrica. Levi vorrebbe mettersi in coppia con Resnyk, ma sa

che è nellordine delle cose che Resnyk mi rifiuti con disprezzo. […]

Invece no: Resnyk accetta, non solo, ma solleva da solo la traversina e me lap­poggia sulla spalla destra con precauzione […].

Dopo una cinquantina di passi sono al limite di quanto si suole chiamare la normale sopportazione […]

Arrivati al cilindro, […] io resto impalato, cogli occhi vuoti, la bocca aperta e le braccia penzoloni, […] attendo lo spintone che mi costringerà a riprendere il lavoro. […]

Ma lo spintone non viene; Resnyk mi tocca il gomito, il più lentamente possibile ritorniamo alle traversine11Ibidem, p. 188. .

Fra le mani amiche svetta quella di Charles, maestro di scuola, trentadue anni. Sono «i dieci giorni fuori del mondo e del tempo»12Ibidem, p. 263. che seguono la fuga delle SS dal campo. Levi e altri organizzano una zuppa per tutti. «Lakmaker era uno sciagurato rottame umano». Malato di tutte le malattie del Lager,

era in letto da tre mesi, coperto di piaghe da decubito, tanto che non poteva ormai giacere che sul ventre. Con tutto ciò, un appetito feroce13Ibidem, p. 272. .

Mangia due porzioni di zuppa e a metà notte lo coglie un attacco violentissimo di dissenteria, sporca il letto, il pavimento, diffonde un odore insopportabile.

Non avevamo che una minima scorta dacqua, e non coperte né pagliericci di ricambio […] Charles discese dal letto e si rivestí in silenzio. Mentre io reggevo il lume, ritagliò col coltello dal pagliericcio e dalle coperte tutti i punti sporchi; sollevò da terra Lakmaker colla delicatezza di una madre, lo ripulí alla meglio con paglia estratta dal saccone, e lo ripose di peso nel letto rifatto […]; raschiò il pavimento con un pezzo di lamiera; stemperò un po’ di cloramina, e infine cosparse di disinfettante ogni cosa e anche se stesso. Io misuravo la sua abnegazione dalla stanchezza che avrei dovuto superare in me per fare quanto lui faceva14Ibidem, pp. 272-273. .

Charles fa un gesto alla apparenza inutile – Lakmaker morirà comunque. Ma non passerà la sua forse ultima notte sul pavimento «a gemere e tremare di freddo in mezzo alla lordura»15Ibidem, p. 272. .

Più che un buon samaritano, Charles è un giusto, che mette a rischio se stesso – il contagio, le SS che periodicamente tornano in lager e uccidono ancora – per alleviare un male che sa di non poter vincere, ma che non rinuncia a contrastare.

Le madri di Fossoli

Primo Levi protegge il bene, mi sembra, perché nessuno possa sovrapporgli derive pietistiche, perché nessuno lo usi per intenerimenti consolatori. Ci si commuove, certo, ma senza che la commozione diventi pacificazione, anticamera dell’oblio, o confusione fra ciò che noi soffriamo e ciò che si soffriva in lager.

Qui si coglie appieno l’impronta della scelta narrativa (e etica) di attenersi ai gesti, evitando le incursioni nella psiche altrui, lasciando a noi il compito e il fardello di immaginare e di trarre le conseguenze.

Uno degli esempi più alti è il racconto delle madri a Fossoli, alla vigilia della deportazione.

E venne la notte. […] Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione.

Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?16Ibidem, p. 143.

Cosa pensavano, cosa sentivano le madri? non c’è bisogno di vederlo scritto. A parlare sono quelle mani premurose e operose, inermi e irremovibili, che non si lasciano dimenticare.


1Vedi M. Goldenberg, Le memorie dei sopravvissuti di Auschwitz. Il peso del genere, e Lidia Rosenfeld Vago, Un anno nel buco nero del nostro pianeta terra. Un racconto personale, in D. Ofer - L.Weitzmann (a cura di), Donne nell’Olocausto, Le Lettere, Firenze 2001.
2A Ravensbrück, per esempio, alcune “organizzano” bigodini con il filo di ferro per farsi una rudimentale messa in piega cfr. L. Beccaria Rolfi, A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Torino, Einaudi, 1978, p.189 . Sembra incongruo che si ceda la razione giornaliera di pane in cambio di un foulard stracciato, ma, scrive Lucia Schmidt-Fels, «Noi donne siamo strane creature: basta una piccolezza a salvarci dalla follia. Persino dall’inferno. Sì, persino dall’inferno», in Deportiert nach Ravensbrueck, citato in G. Bock, Le donne nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 2001.
3Eppure quei discorsi non sono necessariamente un automatismo ossessivo, possono essere un veicolo di comunicazione fra gruppi diversi, uno strumento che aiuta a prefigurare il futuro: il cibo di cui si parla è quello di casa, la tavola imbandita è lo scenario del ritorno, e il legame simbolico fra pane e libertà vive da secoli nella cultura popolare.
4Jean Amery (Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987) ricorda la straordinaria euforia spirituale, la commozione, il desiderio di spiritualità che lo assalgono nel momento in cui divora un piatto di semolino dolce ricevuto in dono da un guardiano; ma ai suoi occhi è un’esaltazione ingannevole, un vero e proprio stato di ebbrezza che lascia dietro di sé «un desolante sentimento di vuoto e di vergogna».
5Primo Levi, Opere complete, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2016, t. I, p. 190.
6Levi, Opere complete cit., t. I, pp. 156-57.
7Ibidem, p. 173.
8Ibidem, p. 223.
9Sulle sperimentazioni, cfr. R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1995, cap. IX.
10Levi, Opere complete cit., t. I, p. 187.
11Ibidem, p. 188.
12Ibidem, p. 263.
13Ibidem, p. 272.
14Ibidem, pp. 272-273.
15Ibidem, p. 272.
16Ibidem, p. 143.

Commenti

Bruno Recalcati 22/03/2024 - 17:38
Il tuo commento

Bello e illuminante. Interessante trattare il problema dal punto di vista femminile. "Cosa sapevamo fare con le nostre mani. Niente o quasi. Le donne sì: le nostre mani e nonne avevano mani vive ed agili, sapevano cucire e cucinare, alcune anche suonare il piano, dipingere con gli acquerelli, ricamare, intrecciarsi i capelli. ma noi e i nostri padri?" da Il Sistema Periodico-

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