Presentazione di "Raccontare per la storia"

In occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino, il 9 maggio 2014 è stato presentato Raccontare per la storia, il volume di Anna Bravo tratto dalla quinta Lezione Primo Levi e pubblicato da Einaudi in edizione bilingue italiano/inglese.

Di seguito proponiamo il testo dell'incontro.

Domenico Scarpa

Buongiorno a tutti! Fabio Levi ha parlato delle “persone che camminano”: comincio ringraziando le persone sedute; oggi sono più numerose del solito, ne siamo contenti. Vediamo se all’interrogazione che le farò – così Fabio Levi, ancora lui, l’ha definita – Anna Bravo saprà rispondere… Ma in realtà lo ha già fatto perché, com’è già accaduto in occasioni precedenti, il titolo della lezione dello scorso novembre, cioè Raccontare per la storia – lo sto sillabando di proposito, perché è un titolo che va letto e pensato al rallentatore – è un titolo scelto dal Centro Studi Primo Levi. Anna non ha fatto storie: l’ha accettato subito e ha consegnato a noi e a voi questo tema svolto. La prima domanda sarà questa: come lei ha inteso, come ha interpretato il titolo del tema, ma soprattutto il verbo sostantivato raccontare: il raccontare alla stregua di un oggetto, di una cosa che si tocca e si fa. E poi, come ha interpretato l’altro oggetto che potrebbe apparire astratto ma diventa concreto: la storia.

Anna Bravo

Raccontare è quello che dovrebbero fare i buoni studiosi e studiose di storia, capaci non soltanto di enunciare e collegare dei concetti, di costruire dei modelli, ma anche di farli risuonare in una narrazione. Si è visto che le persone seguono molto di più un tema raccontato che una trattazione per categorie, il che, se si vuole parlare non soltanto ai colleghi ma sperabilmente a un po’ più di soggetti, è importante. Raccontare è un dovere e una scommessa della storia. Lo svolgimento della Lezione era molto legato a questa proposta del Centro Primo Levi, che ringrazio. Insieme ringrazio la casa editrice Einaudi, e tutti voi qui presenti.

Partire dalla parola “raccontare” è stata una scelta suggerita anche dal modo di scrivere di Levi, che era un grandissimo narratore, oltre che un grandissimo pensatore. Ed è stata nello stesso tempo una scelta disciplinare: oggi anche in Italia, finalmente, ci sono molti storici che hanno imparato a raccontare costruendo intrecci vivi e credibili; e così c’è stato questo incontro. Devo dire che il modo di scrivere di Levi… non ci si può avvicinare, però si può prenderlo come guida e talismano. Io spessissimo lo leggo con la speranza che qualcosa mi resti appiccicato, che un po' dell’aura che emana dalle sue pagine, quell'aura di chiarezza, di limpidezza, di precisione, trasmigri in qualche modo nella mia testa.

Sull'impegno alla limpidezza voglio ricordare un'affermazione di Levi, si trova in un’intervista che Federico Cereja e io avevamo fatto all’inizio degli anni ottanta, un periodo in cui erano ancora molto diffusi i gerghi specialistici, tipici linguaggi per pochi, che respingevano chi non fosse abituato a quel tipo di comunicazione, o chi non facesse parte di date cerchie professionali/intellettuali. In quell'intervista Levi dichiara invece: «io scrivo e cerco di farlo in modo che qualsiasi persona di buona volontà possa capire il mio discorso». È una affermazione di principio straordinaria, e un incoraggiamento di cui abbiamo bisogno, perché oggi ci troviamo in una situazione forse più complicata di allora - ce ne rendiamo conto, penso, ma il rischio è abituarcisi. Da un lato - nonostante gli storici più aperti di cui vi parlavo prima - la parola specialistica continua a esistere, con i suoi tecnicismi e concettosità, che funzionano ancora come attestati di rango. D'altro lato siamo un paese in cui, a dispetto dell'ironia pedagogica di Arbasino, sopravvivono svariate accezioni del “bello scrivere”: c'è chi predilige il linguaggio pseudopoetico, "alato", o vezzoso, e chi pensa che “effettuare” e “recarsi” suonino meglio di fare andare. Infine, dobbiamo misurarci con la parola inflazionata o degradata, così invasiva che non se ne può più. Per esempio: quante volte sentiamo pronunciare in modo vaghissimo parole impegnative come “identità”, “carattere nazionale”, e soprattutto “soggettività” - con l'espressione “ragioni soggettive” oggi si intendono ragioni così personali e intime che si presentano come insindacabili, e infatti il termine soggettività può essere finalizzato a giustificare qualunque comportamento, comprese la scelta di chi nel ’43-’45 si è schierato dalla parte del fascismo e nazismo. E ancora: quante volte sentiamo ripetere “visibilità”, “protagonismo”, o, peggio, “mobilitazione, strategia, schieramenti, militanti, scendere in campo” ecc. Queste ultime fra l’altro sono espressioni di origine guerresca. Ha scritto la grande Lidia Menapace: «se tu dici a un politico tradizionale di parlare senza simboli militari non arriva alla fine della prima frase».

Ma anche noi incontriamo la stessa difficoltà: è uno dei motivi che mi hanno fatto accettare questa proposta con gioia. Beninteso, esprimersi con chiarezza non vuol dire semplificare quel che è complesso, magari rifugiandosi in un similparlato sciatto, o adeguandosi a un presunto livello medio di conoscenze; a chi legge e ascolta, Levi chiede «buona volontà», che implica l'impegno a spostarsi dalle proprie posizioni per andare incontro alla parola altrui.

 

Domenico Scarpa

Vorrei dire brevemente com’è fatto il libro. Il testo di Anna è diviso in tre parti. C’è una prima parte che s’intitola Deportazione per motivi razzisti; e già questo rispetto al linguaggio corrente, normalmente accettato, è un piccolo shock: non per motivi razziali, “razziali” è carino, educato, storiografico: è astratto. Razzisti è più forte, più sporco, più attuale, è qualcosa che ancora circola tra noi; Anna ha preferito questa parola. La seconda parte è intitolata come il più celebre capitolo dell’ultimo libro di Primo Levi, I sommersi e i salvati. Infatti s’intitola La zona grigia, uno dei concetti più inflazionati non solo della letteratura, della teoria letteraria, ma proprio del parlare, del bla bla contemporaneo; «zona grigia» è una delle nozioni più tradite – malmenate, direi – degli ultimi trent’anni, cioè da quando è uscito nel 1986 il libro di Primo Levi. Qui invece, nella Lezione di Anna, abbiamo una sorta di restauro linguistico, di restauro storiografico, e spero avremo il tempo di tornarci su.

La terza e ultima parte s’intitola Storiografia e giudizio morale: si parla di fatti, di questioni, di cui in Italia e non solo in Italia si è discusso poco. Per esempio, quale effetto abbia sulle persone e sulla società la violenza, quella che noi conosciamo ma anche quella che non conosciamo, che non vediamo, che possiamo a volte solo a malapena indovinare. Qual è l’effetto della violenza anche quando sia compiuta per cause giuste, commessa cioè da persone che qualsiasi tribunale giuridico o morale considererebbe dei giusti. Proviamo magari a partire dalla fine e a dire due parole su questo, Anna… Perché è un finale, quello di Anna, tutto smorzato, chi leggerà il libro se ne accorgerà. Ma è uno smorzato in crescendo: può sembrare una contraddizione in termini, eppure Anna è dotata di questo paradossale talento musicale. Spero ce ne dirà qualcosa.

 

Anna Bravo

Grazie. L’ultima parte del mio librino, come diceva Domenico Scarpa, è centrata su questo tema pesantissimo e attuale della violenza compiuta dai "giusti": quella che pone più domande a chi la attua e a chi vuole studiarla e raccontarla, e per questo deve assegnare un ordine ai fatti e un nome alle cose, ai fenomeni, ai comportamenti. Dare un ordine e un nome implica formulare un giudizio, che non è giuridico, né morale in senso proprio, perché lo storico non è il giudice, deve innanzitutto capire; ma deve capire senza mai perdere di vista il significato di vicende e comportamenti. È un impegno morale. Come ha scritto un grande sociologo, Max Horkheimer, chi è «esposto a un'eternità di tormenti inflittigli dagli altri uomini» è animato dall'idea che nel futuro «verrà qualcuno assicurandogli verità e giustizia». Per questo la storia non può astenersi dal giudizio, che vuol dire anche mostrare il lato oscuro delle azioni umane, incluse quelle dei giusti, che nell'esempio che vi presenterò sono i nostri partigiani. Si tratta di fatti poco noti, perché sono stati sottoposti (e in parte lo sono ancora) a una sorta di interdetto. Levi parla in molti suoi testi, brevemente, della violenza esercitata dai giusti, e foriera di effetti distruttivi per le persone che la subiscono, naturalmente, ma anche per chi la agisce. Uno dei compiti più difficile e delicati era proprio applicare questo sguardo alla Resistenza.

Come sapete la Resistenza è un grande evento della nostra storia, la parte essenziale di quello che chiamiamo “mito fondativo” dell'Italia democratica e antifascista. Questa definizione la avrete spesso sentita riecheggiare in modo rituale, ma non per questo è meno vera. Solo che la Resistenza è stata, a mio avviso e non solo mio, troppo sacralizzata, e troppo a lungo. Nelle prime opere di storia e di narrativa le voci più distaccate, a volte ironiche, a volte autocritiche, erano di pochissimi, penso a Fenoglio; gran parte della storiografia illustrava le "glorie della resistenza". Con il tempo, e con la cosiddetta crisi delle ideologie, si è affacciata una visione più laica. Ma negli ultimi due decenni si è rischiato di tornare alle origini: la mia impressione è che più la situazione nel nostro Paese diventa complicata, politicamente e ideologicamente, più ci si aggrappa a un'immagine della Resistenza che assomiglia di nuovo, da vicino, a quella "sacrale", "eroica" del primo dopoguerra. È una reazione agli attacchi rivolti al movimento partigiano in quei decenni, ma è nello stesso tempo un uso politico della resistenza che non aiuta affatto a renderle onore.

Ma, a parte alcune preziosissime eccezioni, persino nelle fasi di maggior apertura storiografica il tema della violenza esercitata dai partigiani – i nostri giusti, anche se non i soli giusti – è rimasto ai margini, al punto che le uniche fonti sono rimaste a lungo quelle presentate dalla destra – non dalla destra politica, che non è la mia parte e che comunque rispetto, ma dalla destra neofascista, nostalgica, rivendicativa, che ha esaltato, gonfiato gli episodi di violenza partigiana. Poi sono arrivati i libri di Pansa, che storicamente non sono ineccepibili, ma che sono in parte il risultato di quel vuoto della storiografia… Pansa è una persona che ha cominciato a fare storia del movimento partigiano con passione, è stato il primo in Italia a laurearsi con una tesi sulla resistenza, quando ha iniziato a approfondire fatti controversi ha probabilmente trovato un muro da parte di altri storici, di intellettuali, dei maggiori media... e adesso si dedica quasi soltanto a documentare errori, illegalità, uccisioni (non in combattimento) a opera di partigiani, in particolare di partigiani comunisti. Dalla vicenda di Pansa secondo me non esce bene nessuno, né lui, né gli storici "ortodossi", né quegli studenti che anni fa hanno cercato di impedirgli di presentare un suo libro.

Sul tema della violenza dei "buoni" Primo Levi ha gettato uno sguardo nuovo nel Sistema periodico, in un racconto, Oro, dove narra che i suoi compagni – e lui stesso, sembra di capire – erano stati “costretti” a uccidere due giovani partigiani per motivi di sicurezza. Levi non spiega esattamente il perché, le versioni non sono chiare neanche dopo Partigia, il libro di Sergio Luzzatto che è andato a vedere in dettaglio i documenti dell'epoca e alcune testimonianze orali. Ma il punto, in questo caso, non è solo il perché; il punto è che questa azione, l’uccidere, la più devastante e più antiumana immaginabile, era fatta da persone non soltanto in buona fede, ma con buona ragione.

Ora, uccidere fa parte di una guerra; purtroppo la Resistenza non è stata solo una guerra ma è stata anche una guerra, una guerra in cui non si potevano fare prigionieri, in cui lo scontro era durissimo, in cui venivano coinvolte le popolazioni come mai era avvenuto prima. Però la dissonanza che Oro rappresenta rispetto alla questione della distruttività dei giusti è che Levi racconta il dopo, cosa succede a chi ha ucciso il proprio compagno; e parla di annichilimento, di fine di ogni speranza per il futuro, di schiacciamento dell’umanità. Levi è l'autore che con più forza, nel momento stesso in cui dice “l’abbiamo fatto in buona coscienza perché era necessario”, ci fa sentire il peso enorme di quel gesto, ci fa sentire che c’è un limite – che è la vita – oltre il quale uno non passa indenne anche se ha tutte le ragioni del mondo. Vorrei ricordare quello che diceva Gandhi - io amo molto i pensatori nonviolenti, non pretendo di essere “nonviolenta”, è molto difficile, ma "amica della nonviolenza" sì. A quanti dicevano: “In fondo i mezzi che cosa sono? Sono solo mezzi”, Gandhi rispondeva che i mezzi in fin dei conti sono tutto, e che non possono smentire i fini, devono rispettarli, onorarli. L'uccisione di quei ragazzi partigiani, che si potrebbe raccontare semplicemente come un passo necessario per salvaguardare la banda, in realtà è stata una tragedia che l'ha distrutta. Diceva ancora Gandhi: «non si può ottenere una rosa piantando un’erbaccia nociva», un pensiero semplice e meraviglioso che sarebbe piaciuto a Primo Levi, e spero che gli sia capitato di leggerlo, e che ne abbia tratto forza.

 

Domenico Scarpa

Sì, infatti… Da questo libro viene fuori un’immagine complessiva di Levi come scrittore della responsabilità. Anche “responsabilità” è una parola oggi svuotata di significato. La sua origine è semplice, viene dal verbo “rispondere”: se tu fai una qualche cosa e poi qualcuno ti domanda perché l’hai fatta, dovresti essere in grado di dire il motivo per cui l’hai fatta; e dopo aver fatto quella cosa dovresti essere capace di immaginare le conseguenze della cosa che hai fatto. La responsabilità è questa faccenda semplice e complicatissima. Primo Levi ha avvertito il senso della responsabilità durante tutta la sua vita attiva, durante tutta la sua vita di scrittore; è finito in un Lager di sterminio a ventiquattro anni, è stato lì per undici mesi e ha dedicato il suo ultimo libro, quarant’anni più tardi – nel 1986, I sommersi e i salvati – a una riflessione su quello che gli era capitato allora. In quei quarant’anni non aveva smesso di riflettere, e non perché fosse un personaggio ripetitivo; stava attento alle parole e difficilmente ripeteva un concetto, semmai si stufava quando gli ponevano sempre le stesse domande, obbligandolo a ripetersi. Eppure, anche davanti a quelle stesse identiche ripetute domande, Levi trovava ogni volta un modo per gettare la sua pietra più in là, per dire e far dire ai fatti – e perfino al suo interlocutore occasionale – qualcosa di nuovo.

Ha scritto Anna nella sua Lezione Raccontare per la storia che I sommersi e i salvati è anche lo sforzo di costruire un’etica e una grammatica della testimonianza. Prima di chiedere ad Anna di prolungare un po’ questa frase, quest’affermazione che a me sembra giusta, voglio leggere mezza paginetta da I sommersi e i salvati. Lo faccio perché a volte in queste presentazioni il pubblico non arriva a toccare il testo, a sentirlo; e allora vorrei dare un piccolo campione di come Primo Levi scriveva e argomentava. È preso dall’ultima pagina de I sommersi e i salvati, in un certo senso è l’ultima pagina che Levi abbia scritto. Si parla di stereotipi, e nel libro c’è un capitolo dedicato agli stereotipi: cioè, le immagini consolanti, semplificanti, false, che circolano sul mondo della deportazione, sui Lager, sulla Germania nazista, sugli italiani, sulla politica e così via. Levi tiene da parte – per questo ultimo capitolo, che consiste in alcune pagine di conclusione – uno stereotipo che non aveva inserito nell’apposito capitolo perché evidentemente gli voleva dare più importanza: e lo mette in risalto nell’ultima pagina del libro.

«Agli stereotipi che ho passati in rassegna nel settimo capitolo vorrei infine aggiungerne uno. Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri “aguzzini”». (“Aguzzini”, che è una parola preziosa, colta, d’altri tempi, Levi la mette fra virgolette, come dicesse: “vedete, il tempo si sta allontanando, la storia del ’44, la storia di quando io fui in Auschwitz non si capisce più, è scritta quasi in una lingua straniera”). «Il termine» – cioè “aguzzini” – «allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male».

Sembra una conclusione di un’ingenuità denudata, sconfortante addirittura: «erano stati educati male». Invece è la frase più dura che Levi potesse pronunciare alla fine del suo ultimo libro. Ricominciamo da qui, Anna…

 

Anna Bravo

Primo Levi ha questa caratteristica che Domenico vi ha adesso descritto, il rifiuto di demonizzare l'altro: se noi demonizziamo un soggetto, automaticamente prendiamo le distanze dal suo male, dal male che ha in sé, dal male che fa, e in questo modo possiamo pensare che non ci riguardi. Insistendo sulla comune sostanza umana, Levi chiama invece in causa anche noi, ma non perché ci attribuisca una responsabilità diretta – la responsabilità di chi è nato dopo non esiste dal punto di vista giuridico e morale. Ci chiama in causa facendo leva sul nucleo originario che condividiamo con gli aguzzini, far parte del genere umano. È una comunanza/comunione da cui abbiamo a lungo distolto gli occhi, e che molti hanno negato, non teoricamente – sarebbe insostenibile – ma di fatto sì: definendo “mostro” il carnefice, ne facevamo l'“altro da noi” per eccellenza.

Espellere l'aguzzino è un'operazione rassicurante, ma non ci aiuta: se si vuole capire una realtà, bisogna capirla anche pensando che i suoi protagonisti erano soggetti esattamente come noi. O meglio, non “esattamente”: le persone sono tante e diverse fra loro, e possono essere diverse persino da se stesse a seconda delle circostanze. Quello che Levi capisce subito (e lo scrive nel ’52 in un testo che Domenico ha scovato grazie a cultura e intuito) è un insieme di cose decisive. Quell'anno Levi recensisce un libro, Le Pitre ne rit pas, di David Rousset, e descrive le SS, i nazisti, come pagliacci, dementi, imbecilli, senza il minimo barlume di libertà mentale e di immaginazione. Non li vede come “angeli neri”, portatori di un male demoniaco che verrebbe da profondità abissali - il male dell’Ottocento, pensiamo a Dostoevskij. Quelli del secondo novecento sono «demoni mediocri» – Levi non usa questa espressione, che è il titolo della seconda parte di un libro di Simona Forti uscito anni fa, I nuovi demoni; ma il significato è precisamente quello.

Nel 1952 la consapevolezza della mediocrità degli aguzzini non era diffusa, Levi è stato uno dei primi a sostenere che erano caratterizzati non tanto da efferata perfidia, quanto da mancanza di empatia, cioè di talento per la condivisione. Definire l'SS un «cannibale in mezze maniche» come fa lui, distrugge l’aura misteriosa, suggestiva, costruita intorno a colui che commette il male, palesandolo nella sua dimensione miserabile e grottesca.

Hannah Arendt – ci sono affinità singolari tra Primo Levi e Hannah Arendt, nonostante fossero persone così diverse per tanti motivi – è stata la prima a gettare in faccia al mondo con una forza impareggiabile la miseria morale dei nuovi demoni, la «banalità del male». Eichmann è un esempio tipico del nuovo genere di criminale: un uomo da poco, che compie i suoi crimini perché non ha la capacità di mettersi al posto dell’altro, sia nel bene sia nel male; e siccome – lo spiegano le scienze umane e il buon senso – l'io e il noi si definiscono sempre in rapporto all'altro, quell'incapacità è in fondo anche una negazione di se stessi. Eichmann è un uomo essenzialmente servile, che non sa far altro che obbedire, e trovandosi dentro una macchina burocratica, politica, ideologica secondo cui obbedire è un valore, esegue gli ordini e li trasmette ai suoi subordinati, da cui si aspetta la medesima adesione. Credo si possa dire senza venature razziste che la Germania, che non era stata il paese più antiebraico d'Europa, era però quello dove intorno alla docilità verso i poteri si era costruita un'immagine altamente positiva; nell’esercito prussiano il motto era «Obbedienza da cadavere», il che dice molto sul tipo di mentalità che veniva instillata.

 

Domenico Scarpa

Voglio ripetere il nome appena pronunciato da Anna perché qualcuno non lo avrà afferrato bene, il nome cioè di Hannah Arendt. È un consiglio di lettura, perché Hannah Arendt ha introdotto nel dibattito politico del Novecento, nella storia – macché nella storia: nella nostra vita comune, non nella storia: nella nostra vita quotidiana! Hannah Arendt ha introdotto la seguente domanda: Che cosa succede quando qualcuno ci dice di fare una cosa e noi la facciamo, zitti e muti, senza discutere? quali sono le conseguenze di questa obbedienza completa? In un tempo non lontano da noi le conseguenze sono state milioni di morti, soprattutto ebrei ma non soltanto: zingari, omosessuali, oppositori politici, tutte le categorie sgradite per una qualsiasi ragione a chi avesse il monopolio di una forza, anzi un monopolio industriale della forza capace di fabbricare in serie la morte. Poi, quando questo qualcuno è stato beccato, uncinato, portato davanti a un tribunale – parlo forte perche vedo distrazione, vedo movimento; vorrei il chiodo delle persone su queste parole qui, faccio la parte di Primo Levi, vi chiedo scusa… – quando questo qualcuno è stato portato di fronte a un tribunale, si è difeso dicendo che aveva solo obbedito agli ordini.

Questa faccenda dell’obbedire agli ordini è purtroppo la nostra vita quotidiana: è storia nostra, ci riguarda, capita tutti i giorni, e capita proprio a noi… Oggi non c’è più il caporale prussiano – o è meno riconoscibile, perché la croce uncinata può sembrare ormai un’immagine del folklore, un residuo di antiquariato. Oggi esistono altre vie attraverso le quali noi obbediamo agli ordini. E chi ha saputo smontare, chi è riuscito a descrivere i meccanismi dell’obbedienza con la maggiore efficacia sono stati due scrittori: uno è italiano, si chiama Primo Levi, ne stiamo parlando; l’altro è un’ebrea tedesca riparata in America, che ha scritto in tedesco e in inglese, e che ha pubblicato in inglese negli anni sessanta un reportage intitolato Eichmann a Gerusalemme, sottotitolo La banalità del male (A report on the banality of evil). Hannah Arendt andò a Gerusalemme per seguire il processo di Adolf Eichmann, il gerarca nazista che aveva organizzato direttamente la cosiddetta «soluzione finale» ed era quindi il responsabile maggiore, subito dopo Hitler, dello sterminio di sei milioni di persone. Eichmann a Gerusalemme ci descrive come questo personaggio che noi osserviamo in fotografia (potete trovarlo anche su YouTube), bloccato al suo seggio di imputato nell’aula del tribunale, con gli occhialoni a culo di bottiglia e una grande cuffia, come quelle che sono adesso tornate di moda per ascoltare la musica per strada o in autobus (nel tempo della miniaturizzazione siamo tornati alle cuffie di grossa taglia): murato dentro i suoi occhiali, dentro la sua cuffia, dentro la sua cravatta, a distanza di vent’anni dai fatti Eichmann non vedeva, non era capace di vedere ciò che aveva fatto. Non perché fosse un mostro, ma perché era un mediocre che aveva eseguito ordini.

Chiedo scusa per la passione eccessiva, la retorica, la lungaggine pedagogica, le ripetizioni. Proviamo a miniaturizzare anche questo discorso: abbiamo parlato di raccontare, abbiamo parlato di storia, di che cosa significassero per Anna queste due parole. Il prossimo tema in miniatura è la preposizione “per”, che è bellissima… Che cosa significa “raccontare per la storia”? Parliamo del per

 

Anna Bravo

Il titolo non è mio, è di Fabio Levi … “Per” sta a indicare una finalità, nel caso di Primo Levi apertamente dichiarata: io racconto, e facendolo mi impongo dei vincoli, scelgo delle modalità espressive, garantisco un’attendibilità, la massima attendibilità consentita dalle circostanze vissute, così da trasmettere agli storici una documentazione il più possibile verificata e utilizzabile; questo è uno degli obiettivi. L’altro è offrire agli studiosi, insieme a nozioni e dati, anche teorie, o meglio ancora, suggestioni, impulsi: non ideologici, ma di metodo e di riflessione. È significativo che le acquisizioni più profonde sulla condizione umana siano venute dalla memoria del Lager, come se fosse necessario un estremo per mettere a fuoco elementi che nella normalità tendono a sfumare.

I due aspetti – attendibilità e impulso alla riflessione – sono strettamente connessi all'etica e alla grammatica della testimonianza … “Grammatica” è una parola che ho sempre interpretato come la fissazione di alcuni criteri, anche tecnici, di vaglio del proprio racconto. Al tempo della «storia orale» si discuteva tantissimo su questo... 

Detto in breve e rifacendomi a quello che dicevi: il primo punto è essere vigili sulla natura della memoria. La memoria è uno strumento, Levi diceva, «meraviglioso ma fallace»; quindi bisogna sapere cosa stiamo maneggiando, e distinguere tra quello che si è vissuto, quello che si è sentito dire, quello che si è letto, quello che hanno detto i compagni, quello che viene enunciato nelle celebrazioni ufficiali, cercando di ricondurre il racconto a quello che è la garanzia massima della memoria: il vincolo all’esperienza diretta. Quando si dice che Primo Levi fa un discorso universale perché affronta temi che ci riguardano tutti, va aggiunto che ci riguardano perché il suo racconto parte da una verità incardinata in una situazione, una verità “situata”. Nel linguaggio degli anni sessanta e poi nel femminismo, c'era la buona abitudine di chiedere a docenti, intellettuali, scienziati che prendevano la parola di chiarire da che luogo parlavano, e il luogo era l’istituzione, l’ideologia, il rapporto con l’oggetto studiato, con i media, con il mercato, e naturalmente con il proprio genere sessuale. A un docente, per esempio, si diceva: “tu sostieni di essere dalla nostra parte, ma sei anche uno che sta dentro l’università con un ruolo e un potere, da che punto di vista ti metti per dire questa cosa?”. Sono domande utili per svelare la manipolazione messa in atto dai media, ma soprattutto i nostri stessi limiti di autoconsapevolezza. Sono convinta che l'onestà (e l'oggettività) di un autore (e di chiunque) non stiano in una equidistanza impossibile, stiano nel palesare il proprio punto di vista; presentandoci come fossimo staccati da idee, interessi, situazioni, quasi puri spiriti, si finisce per ingannare chi ci ascolta.

Levi ci insegna che il racconto è il frutto di un’operazione soggettiva, un'operazione che, contrariamente all'uso odierno del termine “soggettività”, non si presenta affatto come insindacabile: anzi, sa di essere parziale, e proprio di questa consapevolezza fa la sua promessa di verità.

Etica della testimonianza vuol anche dire una testimonianza che si traduce per noi in spinta alla riflessione. La cosa che diceva Domenico Scarpa prima, il processo con cui si crea l’“obbediente”, è qualcosa su cui Levi insiste e che riguarda tutti noi. Quindi la tensione etica non è soltanto nel tema, non è soltanto nella capacità di dire il vero esperito direttamente, sta anche nel fatto che ci chiama continuamente a rendere conto della nostra responsabilità, che magari può essere minima, però non si può fingere di non averla. Noi siamo ormai abituati a uno spreco di parole, buttate lì, ritrattate, rispiegate, insomma neppure di quello che diciamo ci prendiamo la responsabilità. Allora credo che l’etica di Levi, che comporta tante cose, tra cui il giudizio sui comportamenti, voglia per noi dire questo: che dobbiamo farci carico di quello che diciamo, di quello che facciamo e accettare di pagarne le conseguenze. È quel che lui ha sempre fatto, detto, insegnato; e credo che in questo sia stato capito – non so quanto seguito, ma capito sì, perché lo diceva in un modo talmente chiaro che non si poteva fraintendere.

 

Domenico Scarpa

Anna, tu a un certo punto fai un discorso che vorrei ripetessimo qui; con una premessa. Quando, all’inizio, ho parlato di com’è fatto questo libro, ho detto soltanto come è suddiviso il tuo saggio, la tua Lezione: Raccontare per la storia, saggio organizzato in tre parti. Ma la seconda metà del libro, dopo la conclusione del saggio, è un’appendice costruita con testi di Levi e di altri autori, testi che aiutano a leggere non solo il saggio di Anna Bravo, ma aiutano a leggere Primo Levi. In particolare, siamo stati piuttosto generosi nel mettere in appendice pagine da I sommersi e i salvati. È quasi una sintesi, un’antologia del libro: volevamo che – soprattutto quando Anna affronta categorie, concetti, situazioni scivolose, molto facili da fraintendere, come “zona grigia” e “vergogna” – ci fosse immediatamente per il lettore, nel libro stesso che legge, il riscontro del testo di Primo Levi. Abbiamo fatto in modo che il lettore possa, mentre legge il tuo libro, fermarsi per andare a vedere come precisamente Levi si sia espresso, che cosa abbia scritto su questi argomenti.

Anche come strumento scolastico, come strumento di controllo dei testi, questo libro mi sembra particolarmente efficace; è uno strumento maneggevole. Abbiamo voluto, noi e Anna, costruirlo così perché nel saggio che lei ha scritto ci sono, lo avete capito, svariate provocazioni per l’intelligenza, cose che in un primo momento potranno lasciare un po’ interdetti ma che poi vengono argomentate. Ne scelgo una: quando tu dici che forse negli anni quaranta, o cinquanta, o sessanta, se Levi avesse proposto un Se questo è un uomo un po’ più retorico, un po’ più “col petto gonfio”, un po’ più eroico, un po’ più guerresco, manesco, aggressivo, magari avrebbe trovato più ascolto. Sì, se Primo Levi si fosse presentato in panni più combattenti…

 

Anna Bravo

Sì, mi è venuto in mente… ho fatto un lavoro sulla memorialistica scritta della deportazione e mi sono accorta di una caratteristica che ha colpito me e altri. Tutti gli uomini ex deportati, anche uomini ebrei, si raccontavano come partigiani, e i loro libri seguivano un modello forte e suggestivo: incominciavano con la famiglia, l'antifascismo, la Resistenza, gli scontri, la cattura; e, alla fine o quasi, arrivavano al Lager. L’identità principale con cui queste persone si presentavano era quella di partigiani, di combattenti che avevano impugnato le armi, che avevano rischiato la vita e se necessario ucciso. L'unico a distaccarsi da questo modello narrativo “resistenziale” è Primo Levi, che minimizza la sua esperienza in montagna e mette in primo piano l'identità ebraica; che si racconta come un giovane che non sa bene cosa fare, e così i suoi compagni di partigianato.

Probabilmente nel primo dopoguerra i redattori delle case editrici sono rimasti interdetti di fronte a un Se questo è un uomo in cui c’era la denuncia del dolore, del male, dell'abisso, mentre l'epica era assente. E credo che in quel periodo, in cui dominava il modello resistenziale, Se questo è un uomo non sia stato capito. Fra l'altro i motivi addotti da Einaudi per rifiutare la pubblicazione – "se esce adesso finirebbe in una gran marea di libri sulla deportazione” – erano pretestuosi: dal ’45 al ’48 escono una ventina di testi sulla deportazione scritti da uomini, non di più. Sono convinta che se Levi si fosse allineato a quel modello, magari eroicizzando la sua breve esperienza partigiana, magari usando un tono più “muscolare”, più “combattente”, quei redattori avrebbero guardato al testo con maggiore attenzione. Invece lui arriva subito al Lager, e il suo è un racconto di Lager, dichiaratamente. Con gli anni ne arriveranno altri con questo taglio, ma all'epoca è il solo.

Pensate, ci voleva molto coraggio per questa scelta, e per le altre tappe del pensiero di Levi. Oggi non abbiamo parlato del coraggio, a mio avviso la sua caratteristica basilare. Credo che l'abbia pagata, questa capacità di attenersi alla propria gerarchia del vero, anche a costo di esporsi a critiche di compagni deportati, di toccare terreni brucianti, scansati dai suoi affini politici e intellettuali. E a costo di non potersi mai “accasare” del tutto in un gruppo, una cerchia, un luogo politico – altra cosa sono stati gli amici e amiche di una vita. Con questo suo modo di essere, Levi ci regala una verità niente affatto scontata: che la libertà intellettuale e morale (espressione più utile di “anticonformismo”, che, come molte parole che iniziano con “anti”, mette l'accento più sulla reazione alle idee altrui che sulle idee di chi dissente) quella libertà non si misura sul rifiuto di adeguarsi all'opinione della maggioranza – del cui giudizio non è detto che ci importi molto e delle cui ragioni possiamo diffidare. Si misura sulla fedeltà alle proprie convinzioni anche quando sono in contrasto con quelle di amici e compagni al cui affetto e stima teniamo davvero; oppure con le idee e le pratiche di un gruppo da cui vogliamo essere accolti, perché ci attira, perché non vogliamo più essere soli, perché ce ne sentiamo minacciati. Questa libertà, che ci protegge dalla tentazione di adattarci alle opinioni dei più cari e vicini, dal rischio del servilismo mascherato da coesione solidale, è la più difficile, e Levi ci aiuta a averne cura.


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