Presentazione di "Fantascienza?"

In occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino, il 13 maggio 2016 è stato presentato Fantascienza? il volume di Francesco Cassata tratto dalla settima Lezione Primo Levi e pubblicato da Einaudi in edizione bilingue italiano/inglese.

Di seguito proponiamo il testo dell'incontro.

Domenico Scarpa
Vorrei riprendere la prima e fondamentale cosa che ha detto Fabio Levi, nostro direttore del Centro studi. Appunto: Centro studi, Centro di ricerca. La ricerca è qualcosa di interrogativo, pone una domanda, dà risultati non ancora acquisiti, cerca qualcosa che ancora non si sa e per questo si rivolge agli studenti. Questa Lezione, che è la settima della serie, ha un punto interrogativo nel titolo – "Fantascienza?" – ed è un titolo secco, di una sola parola, e di una parola nata in Italia in tempi abbastanza recenti, è un conio italiano, un calco di science fiction; è una parola nata nel 1952 – abbiamo l’anno preciso grazie a un funzionario della Mondadori, Giorgio Monicelli, fratello del regista, che avrebbe diretto «Urania», la più famosa rivista di quella che in italiano volle chiamare coniando il termine “fantascienza”. Questa parola ha, nel titolo della Lezione Primo Levi di Francesco Cassata, la settima, un punto di domanda. É la seconda volta che il Centro studi Primo Levi pubblica un libro con un punto di domanda nel titolo. E questo ci permette di fare una domanda paradossale e provocatoria quanto la fantascienza di Primo Levi. Abbiamo pubblicato qualche anno fa una Lezione Primo Levi di Mario Barenghi intitolata Perché crediamo a Primo Levi?, con un punto di domanda. Quest’anno pubblichiamo Fantascienza? Perché crediamo a Primo Levi? É fantascienza quello che ha vissuto?

Francesco Cassata
La sollecitazione è molto interessante: l’origine di questo punto interrogativo si comprende facilmente guardando una delle illustrazioni che sono contenute nell’appendice di questo libro. La prima raccolta di racconti di fantascienza di Primo Levi venne pubblicata con il titolo Storie naturali nel settembre 1966, con uno pseudonimo, quindi non con il nome Primo Levi, ma con il nome Damiano Malabaila, e con una fascetta, scelta dall’editore, che era appunto: “Fantascienza?” – col punto interrogativo. La mia idea era proprio di partire un po’ da qui, originariamente. Abbiamo discusso molto sul fatto di inserire un sottotitolo che spiegasse meglio, ma forse tutto sommato va meglio così, nel senso di provare a evocare quel passaggio complicato che è la prima uscita di un volume di racconti di fantascienza da parte di Primo Levi con uno pseudonimo. La storia dello pseudonimo, in qualche modo, era stata già illustrata, anche se questo libro contiene ulteriori elementi per capire le origini di questa decisione, che fu una decisione editoriale essenzialmente, voluta dall’editore Einaudi, per una ragione in primo luogo commerciale, ma i documenti che sono contenuti nel libro spiegano abbastanza bene questo punto, credo. A me interessava forse ancora di più spiegare il punto interrogativo. Che cosa voleva dire mettere un punto interrogativo? Perché parlare di fantascienza col punto interrogativo? E quindi capire qual era sostanzialmente il ruolo, la funzione della fantascienza nell’idea, nel pensiero, nell’opera di Primo Levi. Perché tutto sommato la domanda da cui sono partito è piuttosto semplice ma non trovavo risposte nella pur copiosa ormai bibliografia dedicata a Primo Levi. Quindi, perché proprio la fantascienza? Di fatto, la prima parte del libro, di questo lungo saggio, insomma, è dedicato…

Domenico Scarpa
No libro, libro. E’ un libro a tutti gli effetti. Bilingue, italiano e inglese. É la più lunga che abbiamo pubblicato finora. 270 pagine, dividete per due, comunque 135 pagine. É la misura di un romanzo di Simenon: 135 pagine.

Francesco Cassata
E quindi l’idea era un po’ quella di capire, appunto, di rispondere a questa domanda: perché la fantascienza? Qual è il suo ruolo, qual è la sua funzione? Cercando di contestualizzare questo tema e quindi depurando tutto il discorso da una certa lettura della fantascienza di Primo Levi che scaturisce immediatamente dopo, direi, la pubblicazione di Storie naturali, nell’autunno 1966, e che è fortemente viziata,a mio parere, da un pregiudizio culturale, che all’epoca, negli anni Sessanta-Settanta, coinvolse il genere della fantascienza e coinvolse anche lo stesso Primo Levi che patì direttamente questa situazione.

Domenico Scarpa
La domanda successiva, proprio per contestualizzare. Questo è, evidentemente, un libro di ricerca che offre dei documenti nuovi, quindi dei fatti, delle cose che non si sapevano prima. Paradossalmente, anche fatti interni alla casa editrice Einaudi. Cioè, siamo a Torino, è come se questa Lezione riuscisse a vendere il classico frigorifero ai classici eschimesi: cioè, insegnare alla casa editrice Einaudi cose della sua storia che erano rimaste in ombra. I documenti ne fanno fede. Proviamo però a uscire dall’ambito municipale e aziendale, chiedendoci: una volta data una risposta, grazie a questo libro, alla domanda essenziale, secca, perentoria che è nel titolo – fantascienza? e fantascienza che cos’è? – la domanda successiva è: avendo tolto questo punto di domanda, avendo dato per tutto questo libro una risposta sensata, che cosa – secondo te, Francesco – di essenziale noi abbiamo imparato da questa ricerca, dopo questa ricerca, che su Primo Levi non sapevamo? Quale elemento essenziale pensi di aver aggiunto, senza false modestie e remore?

Francesco Cassata
Sì, la mia idea è che uno dei risultati di questa ricerca possa essere individuato nel tentativo di rendere essenzialmente più complessa l’idea della fantascienza di Primo Levi. E mi spiego un po’ meglio. La fantascienza di Primo Levi spesso è stata considerata, ancora oggi viene considerata, come una sorta di elemento secondario, come un corollario dell’opera di Levi, addirittura come un corollario successivo a una produzione che vedrebbe inizialmente ovviamente Se questo è un uomo e La tregua. Questo in primo luogo. In secondo luogo questi racconti vengono spesso sovrapposti alla scrittura di testimonianza, alla scrittura del sopravvissuto di Auschwitz, e quindi letti alla luce sostanzialmente di Auschwitz, potremmo dire, alla luce di Se questo è un uomo. Il mio contributo spero che serva a spostare un po’ il dibattito su entrambi questi punti. In primo luogo, la fantascienza di Primo Levi non è un elemento successivo, secondario della scrittura di Levi, dell’opera di Levi, ma è esattamente parallelo alla scrittura del lager. Sempre nell’appendice voi trovate l’immagine di un racconto di fantascienza – si intitola I mnemagoghi, che poi è il primo che aprirà la raccolta Storie naturali nel 1966 – che però viene scritto nel 1946 e viene pubblicato nel dicembre del 1948 su «L’Italia socialista». Quindi capite che se si ricontestualizza tutto dobbiamo riscrivere questa storia. Immaginare un Levi che, mentre lavora nello stabilimento della Duco ad Avigliana, scrive Se questo è un uomo e parallelamente I mnemagoghi, e nel frattempo una serie di rapporti di laboratorio. Questo libro inizia in effetti in maniera un po’ strana, credo, ma volutamente strana, con un inedito rapporto di laboratorio, scritto da Primo Levi esattamente in quegli anni, su un piccolo fenomeno di puntinatura di alcuni smalti. Alcuni smalti – appunto Primo Levi si occupava sostanzialmente di questo di mestiere – presentano improvvisamente degli strani puntini, degli strani grumi: il libro inizia così proprio per mettere insieme le diverse e parallele miniere letterarie di Primo Levi; quindi la scrittura, il rapporto di laboratorio – e Primo Levi ha spesso associato la sua scrittura alla struttura del rapporto di laboratorio – i racconti di fantascienza e la scrittura di testimonianza. Quindi questo credo sia un primo elemento. Il secondo elemento è quello di avere tentato di interpretare la fantascienza di Primo Levi come un tentativo perseguito consapevolmente da Primo Levi. Quindi Primo Levi non era affatto imbarazzato dai suoi racconti di fantascienza, questo è un luogo comune che continua a essere ripetuto: Primo Levi in realtà era fortemente consapevole del rilievo, dell’importanza della fantascienza, aveva scelto questo genere sia perché vi era legato dalla sua formazione di scienziato e anche dalle sue letture di scrittore, sia perché la fantascienza rappresentava per lui un tentativo di tenere insieme la lezione di Auschwitz, tra virgolette, da un lato e dall’altro la riflessione etica, essenzialmente sulla ricerca scientifica e tecnologica dopo Auschwitz, nell’età contemporanea, nel secondo dopoguerra. Quindi la fantascienza rappresenta una chiave per entrare in quello che Levi definisce “il mondo alla rovescia”; in molti passaggi Levi parla di Auschwitz come di un mondo alla rovescia, un mondo invertito, non irrazionale, questo bisogna dirlo, ma dotato di una sorta di razionalità, di antirazionalità e di antilogicità, da studiare però e da analizzare razionalmente, con gli strumenti della razionalità. E quindi in questo senso Auschwitz diventa una sorta di prisma, un prisma cognitivo, attraverso cui affrontare – Levi definisce la curvatura della scienza dopo Auschwitz, cioè i problemi etici, filosofici, politici della ricerca scientifica nel secondo dopoguerra, sostanzialmente.

Domenico Scarpa
Questo libro, Fantascienza?, si concentra in particolare sulle prime due raccolte di fantascienza di Primo Levi, quella del 1966, Storie naturali, pubblicata con lo pseudonimo Damiano Malabaila, e quella del 1971, Vizio di forma, che viene pubblicata con il nome Primo Levi. Un dato banalissimo, ma che non è stato messo a sufficienza in luce è che questo libro del 1971, Vizio di forma, è la prima opera pienamente creativa, non di testimonianza, non di memoria, firmata con il nome Primo Levi. La tregua era ancora un libro di memoria, un libro autobiografico. Il primo libro pienamente di invenzione. Io vorrei arrivare ancora un po’ più in là, cioè al libro del 1981, Lilít e altri racconti, che contiene altre storie di fantascienza di Primo Levi, raggruppate sotto un titolo curioso. Lilít, che contiene trentasei racconti, è diviso in tre sezioni. C’è una parte che si intitola “Passato prossimo”, e sono dodici storie di Auschwitz, dodici – anzi – ritratti di personaggi di Auschwitz, di personaggi salvati, sopravvissuti in particolare – tranne uno, che impersona la zona grigia, il decano del ghetto di Lodz, non è un salvato affatto. Poi ci sono quindici storie di fantascienza, che si intitolano “Futuro anteriore”, e nove storie sul presente che si intitolano “Presente indicativo”. A me interessa questo ultimo titolo, “Presente indicativo”. Levi dice più volte che non vuole affidare messaggi con i suoi racconti, con le sue storie: “I messaggi li mandano i profeti, e magari i postini, ma non io”; lui si tiene fuori da questo atteggiamento. E poi c’è questo “presente indicativo”: ce li dà o non ce li dà questi messaggi? Ci indica qualcosa?

Francesca Cassata
Assolutamente. É vero che io mi sono concentrato essenzialmente su Storie naturali e su Vizio di forma, proprio nel tentativo di decostruire anche l’interpretazione che era stata consegnata di questi racconti, che a me sembrava un’interpretazione un po’ meccanica, un po’ unilaterale. Ad esempio, per entrare un po’ nel merito, ci sono tre racconti importanti nelle Storie naturali, i cosiddetti racconti tedeschi, perché sono ambientati in Germania – cioè Angelica FarfallaVersamina La bella addormentata nel frigo – che spesso erano stati interpretati come nientemeno, niente più che l’ennesima rielaborazione di Auschwitz in chiave fantascientifica. In realtà indubbiamente Auschwitz è presente, insomma, in questi racconti ma non è questo l’elemento principale. L’elemento principale…

Domenico Scarpa
Si potrebbe dire: “Auschwitz è il presente, in un certo senso…”

Francesco Cassata
In un qualche modo sì…

Domenico Scarpa
… forzando la lettera un po’.

Francesco Cassata
Esatto. Però nello stesso tempo è una lente per osservare altro, per osservare diversi aspetti: ad esempio, come dire, il prometeismo della ricerca scientifica, insomma, in Angelica farfalla, oppure in Versamina, le ricerca sulle basi biologiche del piacere, ad esempio, e del dolore, quindi le ricerche farmacologiche degli anni Cinquanta e Sessanta. E nella Bella addormentata nel frigo – che è un racconto estremamente interessante, complesso – c’è una lunga riflessione sul tema dei confini tra la vita e la morte, che è un tema che ha attraversato la storia della biologia e della medicina – e Levi ne era perfettamente consapevole. Se prendiamo Vizio di forma possiamo fare lo stesso discorso. Nel caso di Vizio di forma, siamo nel 1971, il mio tentativo è stato quello innanzitutto di separare le due raccolte che spesso erano racchiuse in un’unica famiglia sotto l’etichetta “fantascienza”. É vero che si tratta in entrambi i casi di racconti fantascientifici, ma che nascono in contesti profondamente diversi e che presentano uno stile molto differente; nel caso di Vizio di forma sono strettamente collegati ai dibattiti ecologici e in particolar modo agli argomenti dell’ambientalismo scientifico della fine degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta. Per cui, anche qui, Vizio di forma è un titolo significativo perché è un titolo – come spesso accade nelle opere di Levi – che arriva dopo una certa negoziazione. Il titolo originario proposto da Levi era Ottima è l’acqua, che è l’ultimo racconto che chiude questa raccolta di racconti. É un racconto apocalittico, in cui si immagina una crisi ecologica del pianeta legata a un improvviso incremento della viscosità dell’acqua. Allora, Levi voleva intitolare così la sua raccolta di racconti proprio per porre l’accento su un problema presente, su un problema largamente discusso, dibattuto come quello appunto della crisi degli ecosistemi, della crisi ecologica. Arrivare a Vizio di forma – vizio di forma era stato un concetto che Levi stesso aveva elaborato, appunto in riferimento ad Auschwitz – e quindi alla frattura strutturale nella civiltà contemporanea e nella morale contemporanea introdotta da Auschwitz – questo spostamento è molto interessante perché in qualche modo ricostruisce il legame con Auschwitz, e quindi ha un senso, ma nello stesso tempo chiude l’interpretazione di quei racconti. In effetti l’ultima parte del libro è stata dedicata un po’ a un’analisi delle ricezioni, cioè un’analisi di come sono stati accolti all’epoca questi testi. E in effetti le scelte dei titoli poi hanno delle ripercussioni nella ricezione dei libri. Ad esempio, Vizio di formavenne secondo me interpretato in maniera estremamente riduttiva, come Auschwitz che si riproponeva in altre vesti, e quindi sotto le sembianze dello sterminio dell’era tecnologica e scientifica, per usare le parole dell’epoca – un concetto che era estremamente lontano dalle posizioni di Levi, che non usa mai queste parole – oppure venne addirittura criticato perché si accusò Levi di essere stato troppo morbido nei confronti della scienza e della tecnologia, di non essere andato fino in fondo nelle sue critiche. Quindi indubbiamente il presente c’è, eccome ed è importante secondo me restituirlo, proprio per definire questi racconti nella loro dimensione, che li rende affascinanti, complessi, non semplicemente una rielaborazione in altre vesti del discorso della testimonianza.

Domenico Scarpa
La questione del presente indicativo va prolungata credo in un altro senso. Quando si studia un autore, quando si legge un autore, soprattutto un autore che ha tante frecce culturali al proprio arco, come Primo Levi, che può parlare in maniera competente a partire da saperi molto diversi, in Primo Levi non c’è neppure soltanto il sapere letterario e il sapere scientifico in senso generale, ce ne sono altri: c’è un sapere antropologico, c’è un sapere etologico, c’è un sapere linguistico, c’è un sapere della tradizione ebraica, c’è un sapere del mestiere che si fa con le mani… e potremmo anche continuare con questo elenco-inventario della sua bisaccia culturale. Ma vorrei arrivare a un altro punto. Vizio di forma è un libro di fatto sul tema ecologico, che è un tema d’attualità ma insieme anticipatore per quegli anni; pur dicendo a chiare lettere che cos’è questo libro – lo dice l’autore, lo dicono i racconti, lo dicono i testi – quasi nessuno se ne accorge. Quarant'anni dopo è abbastanza singolare che un saggio su Primo Levi si trovi a essere innovativo per il solo fatto di aver messo sotto gli occhi di tutti una cosa che era sotto gli occhi di tutti, per averla detta a chiare lettere. Questa era la premessa. Quando noi studiamo un autore lo possiamo proiettare verso il futuro in almeno due maniere. Possiamo far vedere che ha anticipato la percezione di problemi che si sarebbero visti in tutta la loro entità di lì a molti anni, di lì a generazioni, di lì a decenni – come è in questo caso per Primo Levi per il tema della crisi del sistema pianeta, per il fatto che la nostra ecologia regga – quindi vedere un autore come qualcuno che ha saputo prevedere qualcosa di negativo, prevedere una crisi. C’è un modo meno solito, più difficile da cogliere nell’opera di un autore, cioè vedere se e come un autore sia riuscito a cogliere nel mondo intorno a sé i germi di una innovazione anche potenzialmente positiva, i germi di un avanzamento. Qui mi riferisco a un punto che nel libro viene trattato verso la fine, in modo molto limpido, in modo molto assertivo. Sappiamo tutti della disaffezione che esiste verso la politica, non solo in Italia: in Europa, a livello planetario, è qualcosa che circola un po’ in tutte le società, a prescindere dai regimi politici, a prescindere dal loro livello di democrazia, di liberalismo. Levi dice una cosa molto interessante, che Francesco Cassata porta in primo piano: noi abbiamo un’attenzione eccessiva, ossessiva, verso ciò che fanno i politici, verso le decisioni della politica, senza accorgerci che il potere, il potere decisionale, anzi la capacità di incidere concretamente sulla realtà, la capacità di modificare l’ambiente, di modificare il nostro modo di vivere, le nostre abitudini quotidiane appartiene non tanto più ai politici, da alcuni decenni, ma appartiene ai tecnici.

Francesco Cassata
Sì, questo sì. In effetti c’è un paragrafo del libro che ho intitolato proprio “Il mondo salvato dai tecnici” – in qualche modo – dove in realtà cerco di spiegare come in alcuni dei racconti di Vizio di forma sia contenuta un’idea, una possibile soluzione della crisi planetaria che è al centro della discussione di questi racconti. Se leggete la quarta di copertina – anche qui non ci vuole molto, basta prendere il libro e leggere la quarta di copertina – che probabilmente è opera dello stesso Levi in questo caso, leggete queste parole: “Non c’è scelta, all’arcadia non si ritorna. Ancora dalla tecnica, solo da essa, potrà venire la restaurazione dell’ordine planetario, l’emendamento del vizio di forma. Davanti all’urgenza di questi problemi, gli interrogativi politici impallidiscono”. Quindi, nella quarta di copertina Levi dice due cose. All’arcadia non si torna e quindi tira una stoccata profonda, importante contro tutto un dibattito estremamente diffuso all’epoca, antiscientifico potremmo dire, che individuava comunque nella scienza la principale responsabile dei mali del pianeta e proponeva addirittura un arresto dello sviluppo scientifico e tecnologico; e Levi è molto netto da questo punto di vista: non è tempo per l’arcadia, non è questa la soluzione, anzi la soluzione è esattamente opposta. E per l’epoca dire queste parole non è così facile; adesso può sembrare in qualche modo anche abbastanza scontato, ma anche ora non passa così facilmente quest’idea. Ma sostanzialmente suggerire che chi potrà metter mano ai problemi del pianeta non saranno i politici, o meglio non saranno esclusivamente i politici, ma saranno in prima battuta i tecnici – dice Levi – questa è una parola complicata, che è anche difficile da tradurre, perché i tecnici sono coloro che sono portatori di un sapere scientifico ma che intervengono direttamente sulla materia, che intervengono direttamente sui problemi alla luce di questo sapere scientifico (sono i chimici, sono gli ingegneri, sono i fisici). Unendo questi due aspetti, cioè l’aspetto teorico e l’aspetto applicato, e quindi sostenere, a partire da questi racconti, che saranno proprio i tecnici, proprio a partire dalla loro consapevolezza profonda dei problemi, a poter trovare una soluzione, è qualcosa di estremamente importante, di estremamente coraggioso per l’epoca; è una proposta che viene avanzata da Levi in prima battuta attraverso proprio i racconti di fantascienza, e che poi alcuni anni dopo, a partire dal ‘73-‘74, e poi sempre di più, in tutto il decennio successivo diventerà una proposta concreta, elaborata, più volte ripetuta da Levi in vari contesti, sui giornali ma anche in conferenze e in dibattiti pubblici, cioè quella del ritorno alla coscienza della ricerca scientifica e tecnologica. Ovvero, Levi dice: “la tecnica, la scienza e la tecnologia potranno effettivamente rappresentare il futuro e la soluzione dei problemi, se riacquisteranno coscienza del proprio ruolo”. E questa parola, “coscienza”, è di nuovo un’altra parola complicata perché ha un valore etico innanzitutto, quindi per Levi ha una portata etica questo concetto, quindi lo scienziato deve rifiutarsi ad esempio di impegnarsi in ricerche che siano a carattere militare, e così via… ad esempio. Ma ha anche un’altra portata: vuol dire assumere, riassumere consapevolezza del proprio ruolo e quindi partecipare politicamente e prendere in mano la situazione. Questa proposta verrà fortemente osteggiata, a mio parere, e comunque profondamente fraintesa. E basta appunto leggere le recensioni per farsi un’idea di come non venne accolta sostanzialmente.

Domenico Scarpa
Io insisterei su questo punto perché avete visto che Francesco Cassata ha insistito più volte su alcune parole chiave che sono importanti per Levi: consapevolezza, coscienza. Levi ha detto più di una volta – e non lo ha detto quando scriveva di scienza o di fantascienza, lo ha detto in generale, in linea generale; è un punto di metodo, anzi è un punto del suo stare al mondo, potremmo dire – che desiderava, aveva questo desiderio, forse luciferino, di essere consapevole, di potere dare conto, rendere conto di ogni singola parola che scriveva. Laddove sappiamo che in ogni scrittore c’è un quanto, una zona di inconsapevolezza, di ombra, di impulso non governabile; lo scrittore, ogni scrittore è in un certo senso guidato, governato dalla lingua, dal linguaggio che lo porta… Allora, se noi proviamo a mettere questo libro…, non solo i libri di cui si parla nella lezione di Francesco Cassata, cioè le prime due raccolte essenzialmente, di racconti fantascientifici di Primo Levi, di storie di superinvenzione potremmo dire, quindi Storie naturali e Vizio di forma. Ma questo libro esce nel momento in cui esce contemporaneamente – Fantascienza?, dico – viene pubblicata da Einaudi in contemporanea con un libro molto bello, importante, di Anna Maria Ortese, che sta uscendo in queste settimane da Adelphi, Le piccole persone, curato da Angela Borghesi e che parla della vita e dei diritti degli animali. Sono gli animali le piccole persone, e parlano del trattamento degli animali nella nostra società contemporanea. Contemporanea in senso lato perché come per Levi che scrive fantascienza dagli anni Quaranta fino alla morte, questi scritti di Anna Maria Ortese vanno dagli ultimi anni Trenta, primi anni Quaranta fino alla sua morte nel 1998. Quindi c’è un percorso parallelo di consapevolezza. Consapevolezza fino a che punto? Anna Maria Ortese non è esattamente, per chi l’abbia letta un po’, l’esempio primo che ci verrebbe in mente di autore governato dalla ragione. Levi ci credeva davvero nella consapevolezza, nella ragione, credeva a un impegno razionale degli scienziati, credeva a questo punto di metodo della consapevolezza? Che cosa sfuggiva, che cosa gli sfuggiva, che cosa ci sfugge? Non è una domanda facile, mi rendo conto.

Francesco Cassata
É difficile rispondere. La risposta sarebbe indubbiamente sì, ci credeva molto insomma alla ragione, agli strumenti della ragione, dell’analisi razionale. E questo si nota sia nella sua scrittura – nella specificità della sua scrittura, nella scelta delle parole, nella costruzione delle argomentazioni – sia nell’analisi dei problemi, scientifici, politici, etici su cui Levi riflette. In un contesto soprattutto negli anni Settanta, tra l’altro, Sessanta e Settanta in realtà, un’analisi di questo tipo, un’analisi razionale di questo tipo era assolutamente impopolare, a mio parere. si nota spesso nelle interviste a Levi una sorta di asimmetria tra Levi e l’intervistatore, dove l’intervistatore tende di solito a spingere Levi a sostanzialmente prendere una posizione radicale su molti di questi punto che abbiamo affrontato: il razzismo, la fecondazione in vitro, eccetera, l’ecologia, potremmo fare molti esempi di problemi scottanti discussi all’epoca. E la risposta di Levi è estremamente moderata potremmo dire, ma moderata nel senso più positivo del termine.

Domenico Scarpa
Sì, del metodo, non dell’essere accomodante…

Francesco Cassata
Del metodo, esatto.

Domenico Scarpa
Non dell’essere grigio e steso.

Francesco Cassata
Assolutamente. Lo dico perché poi c’è stata anche una caricatura dell’immagine di Levi da questo punto di vista…

Domenico Scarpa
Sì.

Francesco Cassata
Come colui che, in qualche modo, non prende le posizioni, si mantiene sempre su una dimensione più sobria. Però in realtà è proprio questa dimensione razionale, di analisi razionale dei problemi, che contraddistingue Levi, che lo rende una figura secondo me di rilievo internazionale rispetto a un contesto italiano che era molto provinciale, all’epoca, su questi temi, e che lo rende estremamente utile e attuale oggi, rispetto a molto altro che è stato scritto all’epoca. Ovviamente in qualche modo la fantascienza è proprio anche – per rispondere alla seconda parte della domanda – i limiti della razionalità, in qualche modo, ebbene la fantascienza è proprio un tentativo di navigare all’interno di questi limiti, perché la fantascienza scaturisce, proprio nel caso di Levi, esattamente, da questo problema: come è stato possibile il coinvolgimento della razionalità, della scienza, della tecnologia, in Auschwitz, nel sistema concentrazionario nazista? Perché questa è la domanda forte che si pone Levi, proprio a partire dalla sua idea del rapporto fra scienza e razionalità, quindi dal valore profondamente etico che Levi dà alla scienza. Ed è qui, quest’ombra all’interno della quale Levi continua costantemente a ragionare; però senza mai sfociare nell’irrazionalismo o in una dimensione addirittura trascendente, teologica. Levi rimane sempre all’interno di un costante tentativo, insistito, sofferto, doloroso, di analisi razionale, secondo me fino agli estremi confini possibili di questa…

Domenico Scarpa
Sì sì, Levi è uno che vuole capire. Menzionavi le interviste: pensavi alle interviste che gli fanno su questi libri …

Francesco Cassata
Esatto.

Domenico Scarpa
.. che sono libri creativi. C’è un’intervista molto famosa, una delle ultime che ha dato Levi, a Ferdinando Camon, dove c’è un ribaltamento dei ruoli addirittura comico se non fosse drammatico perché vedi per intere paginate Ferdinando Camon che fa delle filippiche contro la Germania, i tedeschi, la responsabilità, i nazisti, e a un certo punto Levi lo vediamo – non lo vediamo, ma è come se lo vedessimo alzare il ditino: “ma queste cose forse le dovrei dire io”…

Francesco Cassata
Esatto.

Domenico Scarpa
É straordinario questo, e certo non dipende da tiepidezza di Primo Levi, perché ci sono alcune cose che Levi dice nelle sue dichiarazioni che tu riporti nel libro. Levi vedeva questi racconti molto variegati e appunto dispersi, cadenzati lungo decine di anni – appunto dal 1946 fino alla morte non ha mai smesso di praticare questo genere dell’invenzione – ne parlava come di un esperimento narrativo e cognitivo. E poi diceva – ma questo lo diceva negli anni Sessanta, quando stava scrivendo ancora i primi, prima di pubblicare Storie naturali: “Ho scritto qualche racconto di genere mal definibile, di genere fantastico direi… mi diverto molto a scriverne”. Io credo che questo divertimento sia una luce gettata sul suo… sul suo atteggiamento. Tra l’altro tu lì cosa metti, in epigrafe ad uno dei tuoi capitoli? Mila…

Francesco Cassata
Eh, sì…

Domenico Scarpa
No, no, ma dilla perché non tutti la sanno, vale la pena ripeterla.

Francesco Cassata
Il necrologio scritto da Massimo Mila.

Domenico Scarpa
Siamo in chiusura, quindi chiudere con questo mi sembra che venga bene. Me la ricordo quasi a memoria. Massimo Mila era un musicologo torinese, lo saprete, amico di Levi, che fa un necrologio il giorno dopo la scomparsa. Scomparsa tragica, come sapete, quindi era particolarmente difficile scrivere una frase del genere il 12 aprile 1987 sulla «Stampa», sul giornale di Torino, in prima pagina: “Sembrerà un’enormità, ma se mi chiedessero di definire con una sola parola che cosa Levi era, direi che era un umorista”.

Francesco Cassata
Esattamente. Infatti l’idea era proprio di sottolineare questo aspetto.

Domenico Scarpa
Sì. Io direi: voi avete un libro che si intitola con un punto di domanda: Fantascienza? – punto interrogativo. Avete un libro di Storie Naturali, che sono storie tutt’altro naturali. Abbiamo un libro, Vizio di forma, che è tutt’altro che di forma ed è tutt’altro che un vizietto. Li trovate tutti allo stand Einaudi. Trovate noi al Centro Studi Primo Levi, Polo del Novecento, via del Carmine. Fatevi una passeggiata breve allo stand e una lunga da noi. Arrivederci.


Accedi o registrati per inserire commenti