Conversazioni con Primo Levi

Alcune delle più interessanti domande/risposte formulate a/da Primo Levi in oltre venticinque anni di interviste e conversazioni, interrogabili per argomento e con tutti i riferimenti per approfondire

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Scegli un argomento

Quali sono i motivi profondi dell’antisemitismo più o meno sentito e praticato nel corso della storia anche da altri popoli? [...]

L’antisemitismo ha radici antiche e molteplici: volta a volta, ha avuto carattere religioso, o etnico, o economico. Ma in Germania, nella sua forma più virulenta, è stato un impulso irrazionale, di natura intimamente biologica, benché verniciato di filosofia romantica d’accatto. [...]

da La questione ebraica 

p. 6

Esiste ancora nel mondo il pericolo di un ritorno dell’antisemitismo o della persecuzione razziale di massa, coi sistemi di tipo nazista?

L’antisemitismo non è spento, e persecuzioni razziali di massa possono ritornare. […] Un nuovo Hitler, che in qualsiasi paese venisse a prevalere, e disponesse delle terribili armi della tecnica e della propaganda moderne, troverebbe seguaci con facilità irrisoria. [...]

da La questione ebraica

p. 7

C’erano prigionieri che fuggivano dai Lager? [Come mai non sono avvenute ribellioni in massa?]

I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio, da Auschwitz, furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscì qualche decina. L’evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri [erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti,] [...]. Inoltre, a reprimere le fughe, si adottavano rappresaglie feroci [...] Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio [...]

da Ma perchè Auschwitz?

 

p. 94

[...] Qual è stata la molla di questa sua ulteriore testimonianza, che è poi un definitivo «ritratto in piedi» dello scienziato-scrittore? 

Da tempo avevo in corpo la voglia di trasmettere il sapore del mio mestiere; di convogliare al non chimico l’esperienza del nostro incontro con la materia inanimata, che ha mille facce ed è la cote contro cui ci affiliamo. Oggi buona compagna di strada, domani nemica. Il mio chimico è uno che parte in caccia ogni mattina e qualche volta gli va bene e qualche volta no. [...]

da Primo Levi l'alfabeto della chimica

Gabriella Poli
p. 113

Quali i Suoi progetti futuri? Ci ha abituati a improvvise diversioni ispirative, a «sbandate», come dice Lei...

È vero che ho fatto delle sbandate e continuerò forse a farle appunto perché sono un po’ centauro. Sono un liceale con un'educazione umanistica, ma insieme anche un chimico e infine un ex deportato. Quindi ho almeno tre fonti diverse di scrittura. [...] 

da Conversazione con Primo Levi

Giuseppe Grassano
p. 181

Qual è il ricordo più tragico della Sua prigionia ad Auschwitz?

Probabilmente quello dei primi giorni, cioè il trovarsi precipitato di colpo in un universo del tutto diverso, gravido di sofferenza, e poi incomprensibile. Per me e per gli altri è stato anche questo cessare della comunicazione umana il momento più tragico, perché ha coinciso con il buio totale, la disperazione, il non capirsi più. Questo è stato soprattutto vero per noi italiani trovandoci in un campo in cui si parlavano lingue diverse […]

da Dialogando con...Primo Levi

 

Ernesto Olivero
p. 196

Ha un ricordo bello di quel campo?

Sì, qualche minuto, qualche ora di tregua, qualche colloquio con i compagni italiani o non italiani, una canzone che ho insegnato ad un ungherese, e una che l’ungherese ha insegnato a me, e che ricordo ancora in ungherese, lingua che io non conosco. Questi abbozzi, rudimentali, di comunicazione. Non è un caso che si parli di cessata comunicazione prima, e di comunicazione dopo. 

da Dialogando con...Primo Levi

Ernesto Olivero
p. 197

Il ricordo della deportazione incide ancora sulla Sua memoria?

Incide, certo, perché non sono esperienze che si dimenticano, o per lo meno io non le voglio dimenticare; però sono molto lontane e soprattutto fra i fatti e la mia memoria di oggi c’è il mio libro Se questo è un uomo che funziona da diaframma, cioè da memoria mediata; tendo invece a dimenticare il resto, quello che non ho scritto, soprattutto gli stati d’animo, come avviene quasi sempre in questi casi: dimenticare oppure manomettere; si finisce con il falsificare le cose nella memoria e questo capita a tutti. 

da Incontro con Primo Levi 

Graziella Granà
p. 219

Ho l’impressione che di te venga data dai critici un’idea di serietà perfino eccessiva. Mi sembra invece che un’altra questione che riguarda molto da vicino le tue pagine sia l’«umorismo». Sei d’accordo?

Io credo proprio che il mio destino profondo […] sia l’ibridismo, la spaccatura. Italiano, ma ebreo. Chimico, ma scrittore. Deportato, ma non tanto (o non sempre) disposto al lamento e alla querela. Ecco, «a domanda risponde»: è permesso non essere sempre seri, ma qualche volta siì e qualche volta no? Secondo me è permesso, e io ne approfitto; […] Qualche volta, davanti alla pagina bianca, io mi trovo in uno stato d’animo che direi sabbatico: allora provo piacere a scrivere stramberie, e coltivo l’illusione che il mio lettore provi un piacere corrispondente. È vero che alcuni critici, e molti lettori, preferiscono i miei scritti seri; è loro diritto, ma è mio diritto sconfinare. Se non per altri motivi, come autoindennizzo; e anche perché, generalmente, mi piace stare al mondo.

da Credo che il mio destino profondo sia la spaccatura

Giovanni Tesio
p. 241

[...] Dieci mesi in un Lager, dieci mesi quando Lei aveva ventitre anni: segnano una persona per tutta la vita?

[...] Non saprei dire per quale motivo, ma ho l’impressione, se non le sembra cinica l’espressione, che mi abbia arricchito questa avventura, cioè mi ha fornito un’enorme mole di esperienze, di cui ho travasato una parte abbondante nei miei libri, ma ho l’impressione che non sia tutto, che valga ancora la pena di pensarci sopra, di ragionarci sopra, di studiare quali elementi di questa esperienza si ripetano nel mondo d’oggi intorno a noi, quali penso che non potranno ripetersi più, quali stanno già ripetendosi ed è una tematica che avevo impostato [...]

[...] L’avventura del Lager non mi ha distrutto né fisicamente né mentalmente, come è successo ad altri, non ha distrutto la mia famiglia, non mi ha privato di una patria, non mi ha privato di una casa, non solo non mi ha privato di un lavoro, ma me ne ha regalato un secondo, perché io probabilmente non avrei mai scritto se non avessi avuto queste cose da scrivere. [...]

da Il suono e la mente

Dina Luce
p. 312

Ecco, che effetto Le fa rivedere questi luoghi?

È tutto diverso, sono passati oltre quarant’anni; […] Io avevo percorso questi paesi d’inverno e la differenza è totale, perché l’inverno polacco era, ed è tuttora, un inverno duro, non come quello a cui noi in Italia siamo abituati, la neve persiste tre, quattro mesi, e noi eravamo inetti, incapaci insomma di reggere all’inverno polacco, sia durante la prigionia che anche dopo. Io ho percorso questi paesi allo stato di persona dispersa, di persona spiazzata, alla ricerca di un baricentro, di un qualcuno che mi accogliesse. E, veramente, era desolato come paesaggio. 

da Ritorno ad Auschwitz

Emanuele Ascarelli e Daniel Toaff
p. 349

Voi sapevate dove andavate, quale era la vostra destinazione?

Noi non sapevamo praticamente nulla. Avevamo visto alla stazione di Fossoli il cartello con la destinazione sui vagoni, con sopra scarabocchiato «Auschwitz»; ma non sapevamo dove fosse, abbiamo creduto che fosse Austerlitz. Pensavamo: mah, sarà da qualche parte in Boemia. A quel tempo in Italia credo nessuno, neppure le persone meglio informate, sapevano che cosa volesse dire Auschwitz.

da Ritorno ad Auschwitz

Emanuele Ascarelli e Daniel Toaff
p. 351

Lei non crede che gli altri, gli uomini, vogliano al più presto dimenticare Auschwitz, oggi?

Esistono segnali che questo avviene, dimenticare o addirittura negare. Questo è significativo: chi nega Auschwitz è quello stesso che sarebbe pronto a rifarlo.

da Ritorno ad Auschwitz

Emanuele Ascarelli e Daniel Toaff
p. 358

[...] Quale riconoscimento alla Sua opera ricorda con più viva emozione?

Probabilmente il Campiello ’63, ma, precedentemente, la prima recensione avuta per Se questo è un uomo, su «La Stampa», ad opera di Arrigo Cajumi, che mi promosse scrittore. È stata un’emozione superiore a quella dei premi letterari che sono seguiti e che naturalmente ho accettato volentieri, ma che spesso risultano cerimonie ibride, letterarie e mondane al medesimo tempo, in cui ci si stanca, in cui si viene presentati a centinaia di persone che poi dimentichiamo. La recensione del critico intelligente vale molto, è un grande dono.

da Intervista a Primo Levi 

Paola Lucarini
p. 374

Rivedendo la Sua vita, quale mestiere le sembra più congeniale, il chimico o lo scrittore?

Sono due mestieri difficili. Nell’industria, il rendimento di un individuo può variare in più o in meno di un 20 per cento. Nello scrivere, ci sono giorni in cui si sta seduti per ore davanti a un foglio bianco senza combinare nulla. Altri giorni, magari in auto in mezzo al traffico, vengono idee bellissime: il rendimento è assolutamente imprevedibile. [...]

da Chimico 

Enrico Boeri
p. 380

La domanda di rito: un Suo pregio e un Suo difetto.

Il mio pregio sta nell’attenermi alla realtà: un debito che il Primo Levi scrittore ha verso il Primo Levi chimico. Il mio difetto è la mancanza di coraggio, la paura per me e per gli altri.

da Chimico 

Enrico Boeri
p. 380

Vive con un senso di colpa il Suo essere sopravvissuto al Lager?

Credo che sia molto difficile assegnare un significato preciso al termine «senso di colpa». Appena tornato dal Lager ho passato dei mesi molto brutti: forse quello star male, quel disagio che provavo era davvero senso di colpa, ma non ne sono proprio sicuro. Forse era una gratificazione della sofferenza, non saprei dirlo. Questo è un tema di cui ho letto sovente, che riguarda soprattutto chi si è salvato per aver collaborato […]. 

da Primo Levi 

Rita Caccamo e Manuela Olagnero
p. 435

Molti ex internati hanno raccontato di essersi portati dietro dal Lager un «senso di colpa». Quale colpa? Che colpa può avere una vittima innocente?

[...] Non è che sentiamo noi la vergogna che dovrebbe sentire il carnefice; però in una certa misura tutti, credo, o molti, abbiamo provato un certo disagio a pensare che sono morti tanti che valevano quanto noi o erano meglio di noi. Non sono necessariamente i migliori ad essere sopravvissuti, in qualche caso sono stati i peggiori. È la sensazione di essere vivi al posto di un altro; […] Inoltre, non è detto che la vittima sia pura, sia totalmente esente da colpa. Anzi, era proprio tipico del sistema del Lager di costringerci a renderci colpevoli in qualche misura; io, per esempio, avendo accettato di lavorare in un laboratorio della IG-Farben.

da Le parole, il ricordo, la speranza

Marco Vigevani
p. 441

Se dovesse scegliere una frase, una parola, un’immagine per definirsi...?

Mi sento un centauro. Perché doppio, ibrido, bifido. Sono italiano ed ebreo, chimico e scrittore, razionalista e poeta. Sono favolosamente stazionario e mi piacerebbe viaggiare.

da Io sono un centauro 

Giorgio Martellini
p. 454

Forse Primo Levi non ama parlare di sé?

No, mi piace moltissimo parlare di me (ride), però è vero che sono riservato. Naturalmente le due cose sono contraddittorie, ma quando si presenta l’occasione di parlare di me lo faccio con piacere, con narcisismo, addirittura.

da «Non sono uno scrittore che scrive per sé, ma per chi mi legge»

Marina Mentasti
p. 455

[...] Che valore ha, per Lei, un premio?

[...] Per me un premio è un riconoscimento da parte del pubblico. Io tengo molto al pubblico, non appartengo a quella categoria di scrittori – pregevolissima – che scrivono per sé. Io scrivo per chi mi legge e quindi un premio mi porta davanti a un pubblico vasto. Questo mi fa piacere, anche perché mi permette un contatto, magari indiretto, con i miei lettori. È gradevole quando mi scrivono i miei lettori, e mi scrivono in molti.

da «Non sono uno scrittore che scrive per sé, ma per chi mi legge»

Marina Mentasti
p. 456

È tornato ad Auschwitz?

Due volte, nel 1965 e nel 1982 . La scritta della lapide che c’è all’ingresso del «memorial» degli italiani non è firmata ma è mia. Le posso dettare le parole: «Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa’ che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa’ che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non sia nuovo seme né domani né mai». 

da Levi: l'ora incerta della poesia

Giulio Nascimbeni
p. 471

Come fu il ritorno nel Lager?

Nel 1965 meno drammatico di quanto possa sembrare. Andai per una cerimonia commemorativa polacca. Troppo frastuono, poco raccoglimento, tutto rimesso bene in ordine, facciate pulite, tanti discorsi ufficiali...[Nel 1982 invece] Eravamo in pochi, l’emozione è stata profonda. Ho visto per la prima volta il monumento di Birkenau, che era uno dei trentanove campi di Auschwitz, quello delle camere a gas. È stata conservata la ferrovia. Un binario arrugginito entra nel campo e termina sull’orlo di una sorta di vuoto. Davanti c’è un treno simbolico, fatto di blocchi di granito. Ogni blocco ha il nome d’una nazione. Il monumento è questo: il binario e i blocchi.

da Levi: l'ora incerta della poesia

Giulio Nascimbeni
p. 471

[Nelle occasioni in cui è tornato ad Auschwitz] Si presentavano nomi, volti di vittime, volti di carnefici […]?

No, ritrovavo sensazioni. Per esempio, l’odore del luogo. Un odore innocuo. Credo sia quello del carbone. 

da Levi: l'ora incerta della poesia

Giulio Nascimbeni
p. 471

Il titolo Ad ora incerta allude alla discontinuità con cui Lei scrive poesie. Ma quali sono le occasioni di queste spinte discontinue?

Devo premettere che il titolo è tratto da un verso della mia poesia Il superstite e che esso dipende a sua volta da un luogo tratto dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Anch’io, come dice Coleridge del vecchio marinaio, al ritorno da Auschwitz mi sono sentito dotato di uno strano potere di parola. Questa è l’origine del titolo. Poi mi sono accorto che si attagliava molto bene a descrivere la saltuarietà con cui faccio poesia.

da «Le occasioni? La memoria, un ponte, una ragnatela»

Giovanni Tesio
p. 476

E le occasioni dell’«ora incerta»?

Sono le più imprevedibili. Una ragnatela, una chiocciola, il ponte del diavolo a Lanzo, oppure la memoria, il ritorno della memoria.

da «Le occasioni? La memoria, un ponte, una ragnatela»

Giovanni Tesio
p. 476

Della poesia 11 febbraio 1946 tratta dal volume Ad ora incerta, mi hanno colpito tre versi: «Meditai la bestemmia insensata | che il mondo era uno sbaglio di Dio | io uno sbaglio del mondo». In che cosa consiste l’insensatezza di questa bestemmia?

Questa è una poesia d’amore, l’ho scritta in un momento in cui ero innamorato. In quest’atmosfera mi sembrava blasfemo quello che avevo pensato fino a poco prima, cioè che il mondo fosse uno sbaglio di Dio e io uno sbaglio del mondo. Devo dire che non potrei più sostenere questi tre versi, oggi, perché vanno intesi in senso metaforico. Che il mondo sia uno sbaglio di Dio, oggi lo ritengo ancora una cosa non più blasfema ma insensata perché se c’è un Dio non sbaglia. E neppure credo di essere io uno sbaglio nel mondo. O nessuno o tutti, non io in specie.

da Lo specchio del cielo 

Alberto Gozzi
p. 524

Per quanto tempo Lei è stato internato?

 

Per un anno, dal febbraio del ’44 al gennaio del ’45.

da Il veleno di Auschwitz

Lucia Borgia
p. 533

Qual è il ricordo di un suono, di una parola, piú precisa di Auschwitz? Qual è il ricordo che Le torna più spesso alla memoria?

Come parole, i comandi. Come suono, le marce che suonava l'orchestra ogni mattina e ogni sera, era una dozzina forse, una quindicina, sempre le stesse. Io non so scrivere musica, ma potrei dettarle benissimo. Ho scritto in Se questo è un uomo che è l’ultima cosa che dimenticheremo. Sono passati quarant’anni e posso confermarlo.

da Il veleno di Auschwitz

Lucia Borgia
p. 534

[...] il Suo essere chimico quanto ha influito [nella Sua produzione letteraria]?

Sì, il mio essere chimico ha influito in modi sottili; in due modi direi. In primo luogo mi ha fornito una notevole quantità di materia prima, cioè di episodi e fatti da raccontare, che ho riportato nel Sistema periodico e, in parte, nella Chiave a stella. In secondo luogo credo che abbia influito sullo stile, sul modo di scrivere, perché io ho fatto il chimico per quasi trenta anni e mi sono abituato ad una scrittura quale si usa nelle fabbriche, cioè ad una scrittura estremamente chiara e concisa; buona parte l’ho travasata nel mio scrivere, nel mio mestiere numero due, cioè nel mestiere di scrittore. 

da Essere ebrei senza religione 

Raffaella Manzini e Brunetto Salvarani
p. 621

[Com’è nato il campo?]

[...] Era stato fondato alla fine del ’40 con lo scopo di stroncare la resistenza polacca. Ha cambiato via via destinazione fino a diventare il campo destinato agli ebrei, ma non era un campo di pura distruzione, era un ibrido, come Majdanek. I campi di distruzione erano altri, erano Treblinka, Chełmno, Sobibór, Belžec da cui non si usciva. [...]

da A colloquio con Primo Levi

Carlo Paladini
p. 671

È ironico che il momento più doloroso della Sua vita sia stato anche il più incisivo.

Non c’è contraddizione, non crede? È stata una cosa dolorosa, certamente, però è stato anche – sembra cinico dirlo – il periodo più interessante della mia vita. È stata un’avventura anche. Non sono il solo a parlare così. [...]

da Un'intervista con Primo Levi 

Risa Sodi
p. 699

[...] Molti hanno ricordato l'episodio della guardia che si è pulita la mano sulla Sua camicia. Perché quell'episodio in particolare ha colpito il pubblico tedesco?

 

Era un atto fortemente simbolico e per questo ha colpito la genrte: ha colpito anche me. Non era un atto di violenza fisica: un pugno in faccia era molto più doloroso. Ma questo fatto di essere usato come uno strofinaccio l’ho percepito allora, e lo sento anche adesso, come uno dei più grossi insulti che io abbia patito. 

da Un'intervista con Primo Levi

Risa Sodi
p. 703

Che cosa vuol dire, moralmente e spiritualmente, «abituarsi» [alla violenza]?

Uno perde la sua umanità, semplicemente. L’assuefazione alla vita del Lager è per un verso l’unica via per sopravvivere, per l’altro significa perdere una parte della propria umanità. Il tema di Se questo è un uomo è anche questo. Riguarda le guardie e i prigionieri. Non erano più umani né gli uni né gli altri. La disumanità del sistema nazista arrivava fino ai prigionieri, salvo quelle poche eccezioni. 

da Un'intervista con Primo Levi 

Risa Sodi
p. 703

Come si riacquista l’umanità, dopo Auschwitz?

Ricorda le ultime pagine di Se questo è un uomo? Lì ho descritto come l’ho riacquistata, quando con altri compagni abbiamo potuto aiutare i malati e i moribondi, benché fossimo malati anche noi. Ho mantenuto un’amicizia profonda con un francese che mi ha aiutato, Charles [Conreau]. Ci scriviamo ancora. […] perché abbiamo avuto l’impressione, sia lui sia io, di aver vissuto un’importante avventura insieme: quella di aver cercato di salvare delle vite umane. Era appena finita la prigionia: eravamo ancora ad Auschwitz, ed eravamo ancora malati. Però abbiamo montato una stufa e abbiamo fatto da mangiare per dieci persone, cercando di farle sopravvivere un po' di più. Abbiamo avuto proprio l’impressione di riacquistare la dignità umana. Aiutando gli altri. E anche gli altri l’hanno sentito. Quei poveri malati, povera gente, alcuni moribondi, che hanno deciso di darci un tozzo di pane che avevano avanzato, anche questo era un atto di umanità, diverso da quello che era avvenuto prima.

da Un'intervista con Primo Levi 

Risa Sodi
p. 704

[...] Ci può mai essere una «violenza utile»?

[...] Ad Auschwitz, ho avuto la sensazione di due diversi livelli di crudeltà. […] in molte azioni dei nazisti c’era proprio il desiderio di infliggere sofferenza fine a se stessa. E niente altro. Ho citato anche il caso, il caso clamoroso, delle novantenni [dell’ospizio ebraico di Venezia] che sono state caricate sui treni e portate nei Lager. Non era più logico ucciderle subito? Non so se sia giusta la mia interpretazione, che è quella, appunto, di infliggere la massima sofferenza possibile; o magari era pura stupidità. […] Penso che ci fosse proprio un piacere maligno a deportarle. Siccome erano stati nutriti da una intensa propaganda secondo cui gli ebrei erano veramente Ungezieferen – animali nocivi, parassiti – […]. Eravamo davvero odiati da molti ed era considerato giusto farci soffrire. [...]

da Un'intervista con Primo Levi

Risa Sodi
p. 704

Si è mai posto la domanda di come sarebbe stata la Sua vita senza Auschwitz?

E sì, certo! Non solo me la sono posta, ma me la pongono tutti! Io non so rispondere. Scusi, se io dicessi a Lei, «Se Lei non fosse nata in America, che cosa avrebbe fatto?» Lei non potrebbe rispondere. [...] Non lo so, ma posso fare qualche supposizione. Probabilmente non avrei scritto. O avrei scritto chissà cosa. Facevo il chimico, e con molta convinzione. Infatti, ho fatto il chimico per tutta la vita. […] Probabilmente non avrei scritto o avrei scritto delle cose completamente diverse, forse qualche trattato di chimica. Certamente possedevo la capacità di scrivere; questo non posso negarlo. Non sono nato da nulla. Avevo fatto degli studi classici abbastanza seri e lo strumento della scrittura lo possedevo. Ma non avrei avuto, come dire, la materia prima per diventare scrittore.

da Un'intervista con Primo Levi

Risa Sodi
p. 708

Ha messo molta enfasi sull'impossibilità di comunicare, sia con il mondo esterno che fra di voi [prigionieri]. C’era una lingua franca ad Auschwitz, che non fosse il tedesco?

All’inizio era il polacco, e anche lo yiddish. Poi arrivarono così tanti ungheresi che tutti parlavamo ungherese. Era la lingua più diffusa. Io parlavo tedesco con loro, dal momento che non tutti ma molti ungheresi sapevano un po’ di tedesco. Eccetto i contadini. I contadini non sapevano niente, ed erano così numerosi! [...] Parlavano solo ungherese e yiddish. [...]

da Primo Levi: un'ultima conversazione

Risa Sodi
p. 740

In Lager c’era differenza tra uomini e donne?

Uomini e donne erano in Lager diversi e le donne stavano peggio. Stavano peggio per molti motivi: in primo luogo perché il lavoro era lo stesso per uomini e per donne e mediamente le donne sono meno robuste degli uomini e poi perché l’ideologia nazionalsocialista era profondamente antifemminista. Le donne erano considerate, come dire, degli strumenti di riproduzione. Dovevano «fabbricare» guerrieri, «fabbricare» i difensori della patria, non avevano altro scopo. Non si vedeva nella donna altro, anche se poi eccezioni ce n’era, naturalmente, come ce n’era dappertutto, ma alle ragazze a scuola veniva insegnato questo: che la donna doveva essere modesta, doveva non aspirare a una carriera, doveva sposarsi presto, doveva sposarsi con un uomo biondo, bello, germanico, di razza pura e cosí via e mettere al mondo più figli possibile. Questo disprezzo veniva moltiplicato per le donne non tedesche: erano ancora peggio, insomma erano veramente una merce di dozzina. Bisogna pensare cosa significa, anche per un uomo, naturalmente, ma tanto più per una donna, abituata, che so io, a una certa eleganza, a una certa cura di se stessa, avere i capelli rasati e venire privata di tutto, vestita di stracci non sulla sua misura, di scarpe con cui non si poteva camminare. Perdere, insomma, ogni caratteristica femminile, diventare un pupazzo immondo. Era molto traumatizzante. Questo, è chiaro, non l’ho provato io, perché i campi erano separati, però ho parlato con molte mie amiche che hanno raccontato quello che anche noi sentivamo, cioè questa spersonalizzazione del primo giorno…

da Io non pensavo di scrivere

Alessandra Carpegna
p. 817

Quali sono i primi sentimenti e le prime sensazioni che prova adesso quando pensa al Lager?

[…] In primo luogo ho sviluppato dei terribili calli, una callosità, perché ho parlato di queste cose con parecchie centinaia di persone e il mio libro, Se questo è un uomo, è stato tradotto in molte lingue, ne ho parlato pubblicamente, è stato ridotto per radio e per teatro, ha avuto, insomma, una lunghissima storia e oramai il Lager sta dietro a tutta questa barriera di destini successivi. Per questo dico che è inquinato il mio ricordo del Lager, si confonde con quello del libro. Devo fare uno sforzo per pensare adesso a quella condizione e per ricostruirla e devo dire che Se questo è un uomo mi funge da memoria artificiale perché se non l’avessi scritto, avrei finito col dimenticare qualche cosa. [...]

da Io non pensavo di scrivere

Alessandra Carpegna
p. 818

La coscienza di patire tutti una comune ingiustizia non vi univa?

Non abbastanza. Per molti motivi. Il motivo fondamentale è che mancava la comunicazione […]. Pochi fra noi ebrei italiani capivano il tedesco o il polacco; pochissimi. Io sapevo qualche parola di tedesco. L’isolamento linguistico, in quelle condizioni, era mortale. Sono morti quasi tutti gli italiani per questo. [...]  Chiedevi informazioni, notizie, spiegazioni al tuo compagno di letto e quello non ascoltava e non capiva. Questo fatto era già un primo grosso ostacolo all’unione, al riconoscersi come compagni.

da Conversazione con Primo Levi 

Ferdinando Camon
p. 839

Ma che cosa Le interessa, nella chimica?

Mi interessa il contatto con la materia, capire il mondo che è attorno a me, mi interessa la chimica del corpo umano, la biochimica. La scienza, insomma; ma la scienza delle particelle mi dice molto poco, mentre la scoperta dei meccanismi della genetica mi appassiona, il modo in cui viene codificato l’individuo, lo spezzone minuscolo il cui alfabeto è fatto di molecole. C’è un ponte fra linguisti e genetici. […] mi appassionava il parallelismo tra la formula scritta sulla carta e quello che avviene nella provetta; mi sembrava già allora qualcosa di magico, e la chimica mi sembrava la chiave principale per aprire i segreti del cielo e della terra, e aver letto allora che uno spettroscopio permette di conoscere la composizione chimica di una stella, mi sembrava uno dei massimi poteri dell’uomo. 

da Conversazione con Primo Levi

Ferdinando Camon
p. 856

Cioè: Auschwitz è la prova della non-esistenza di Dio?

 

C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. [Sul dattiloscritto, a matita, ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo].

da Conversazione con Primo Levi 

Ferdinando Camon
p. 858

Ha ancora dei contatti con i compagni del Lager?

Henek l’ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. È uno di quelli che hanno rimosso tutto: […].

da Incontro con l'autore

Marco Viglino
p. 923

C’erano anche molti suicidi?

No. Questo è un argomento importante. C’erano pochi suicidi, in Lager, e del resto c’erano pochi suicidi anche in tempo di guerra, meno che adesso, e... ho letto diverse spiegazioni del fatto, poco convincenti: la mia interpretazione è che il suicidio è un fatto umano, in quanto non animalesco, gli animali non si suicidano, e che il livello umano tendeva all’animalesco in Lager, sí, lo dicevo prima, l’importante era il fatto della giornata, cosa si mangiava, quanto freddo c’era, che fatica che si faceva, quale lavoro c’era da fare, arrivare alla sera insomma. Non c’era tempo di pensare... di pensare a uccidersi.» 

da Intervista a Primo Levi, ex deportato

Anna Bravo e Federico Cereja
p. 958

Non sapevate come funzionava, come procedeva [lo sterminio]?

No. Correva, sí, voce che ci fossero un crematorio e una camera a gas, ma siccome non erano nel mio campo... Erano a quattro chilometri di distanza e così le voci che ci arrivavano erano censurate, e per molte ragioni. Censurate perché i tedeschi non volevano che si sapessero, e censurate perché anche i prigionieri che venivano da altri campi e le sapevano non ne parlavano volentieri, quasi per una specie di galateo. Come in un salotto non sta bene parlare di cancro, così là non si parlava di camere a gas; era considerato di cattivo gusto, insomma. Si sa, ci sono, ma... e poi nessuno sapeva bene come fossero fatte, perché chi ci andava non ne usciva.

da Dal fascismo ad Auschwitz c'è una linea diretta

Marco Pennacini
p. 962

Quanto è durato il viaggio [per Auschwitz]? E dove siete arrivati?

Tre giorni. Poi siamo arrivati direttamente ad Auschwitz. Il viaggio è stato durissimo, perché faceva molto freddo, e soprattutto perché non ci avevano avvisato di portarci dietro dell’acqua. Non ci avevano comunicato la destinazione; ci avevano detto: «Portatevi qualche scorta per un giorno o due di viaggio»; così l’acqua non è bastata e abbiamo avuto molta sete. [...]

da Dal fascismo ad Auschwitz c'è una linea diretta 

Marco Pennacini
p. 967

[Già nel Lager pensava che, se fosse sopravvissuto, avrebbe scritto di quell’esperienza?]

[...] Sì, avevo una vaga idea di sopravvivere per scrivere, questo sì, mi ricordo di averlo detto a qualcuno. Addirittura, quando ero in laboratorio e avevo una matita e un quaderno ho scritto qualche pagina, che poi ho perso: l’ho scritta così, per l’urgenza di scrivere, sapendo benissimo che poi l’avrei persa. Ma era molto importante per me, allora, la possibilità di diventare un testimone: lo sentivo già allora, non solo io, ma un po’ tutti; con tutti quelli con cui si parlava si diceva: «È importante sopravvivere per poterlo raccontare perché il mondo sappia queste cose». [...]

da Dal fascismo ad Auschwitz c'è una linea diretta

Marco Pennacini
p. 986