Presentation of «Sfacciata fortuna». Luck and the Holocaust

Presentation of the volume drawn from the first "Primo Levi Lecture": Robert S.C. Gordon, «Sfacciata fortuna». Luck and the Holocaust [«Sfacciata fortuna». La Shoah e il caso], Giulio Einaudi editore, Torino 2010.

Featuring: Robert Gordon, Fabio Levi e Domenico Scarpa. Introduction by Ernesto Ferrero.

Primo Levi, from memory to present May 14, 2010

On the occasion of the International Turin Book Fair - on May 14, 2010 - «Sfacciata fortuna». Luck and the Holocaust[«Sfacciata fortuna». La Shoah e il caso] has been presented to the audience. The volume, printed by Einaudi in English and Italian, is drawn from the first Primo Levi Lecture titled «Outrageous Fortune»: Luck, the Shoah and Modernity.

Following is the text of the round table (in Italian).

Ernesto Ferrero:

Buongiorno, sono particolarmente lieto di essere qui stamattina a salutare Robert Gordon che ha tenuto lo scorso autunno una lezione bellissima, la prima delle lezioni Primo Levi, Sfacciata Fortuna. "Sfacciata fortuna" è un'affermazione di Primo Levi stesso, che, con la sua consueta modestia, attribuisce la sopravvivenza in Lager al caso e alla fortuna, e, proprio da questa sua affermazione parte la riflessione di Gordon, che è un bravissimo italianista che lavora a Cambridge e adesso, molto opportunamente, questa sua lezione è diventata un libro, il primo dei Quaderni Primo Levi pubblicati da Giulio Einaudi Editore, e dietro questa iniziativa c'è un nuovo Centro Internazionale di Studi intitolato a Primo Levi e diretto in maniera che dire esemplare è poco da Fabio Levi, storico dell'Università di Torino, che, vi assicuro, sta facendo un lavoro straordinario. Ha impostato un cantiere che produce e produrrà grandi frutti in futuro. Credo che non si poteva onorare meglio la memoria di Levi che attivando un Centro così efficiente e così produttivo. Fabio Levi è il signore qui alla mia destra; a parlarne con Gordon e con Levi è Domenico Scarpa, Mimmo per gli amici, che, non perché è qui, lui lo sa bene, da anni io considero uno dei più bravi giovani critici italiani e, in particolare, su Levi ha scritto delle cose di assoluta rilevanza. Il mio compito finisce qui, vi ringrazio di essere qui con noi e, naturalmente, ringrazio i relatori, ringrazio Robert di essere venuto dall'Inghilterra, ringrazio Mimmo e ancora grazie a Fabio Levi per lo straordinario lavoro che fa e, già che ci sono, saluto anche Renzo e Lisa Levi che sono con noi in sala questa mattina. Grazie mille a tutti.


Fabio Levi:

Io non voglio portar via tempo ai due relatori. Voglio soltanto manifestare il piacere per questo incontro di oggi, per la presentazione del primo risultato del nostro lavoro, un lavoro che oramai va avanti da due anni; è un lavoro che potete constatare direttamente attraverso il nostro sito – e vi dico l'indirizzo: www.primolevi.it – e non starò a dilungarmi su quello che facciamo. Voglio semplicemente, in primo luogo, ringraziare chi ha contribuito alla realizzazione di questo primo frutto del lavoro del Centro Internazionale di Studi Primo Levi, la casa editrice Einaudi, che ha creduto in questa iniziativa, e l'autore del libro, Robert Gordon, e poi tutti quelli che dentro e con il Centro Primo Levi hanno contribuito a raggiungere questo primo risultato.
Il libro che presentiamo qui contiene la stesura ampliata della lezione che Robert Gordon ha tenuto nel novembre scorso nella facoltà di Chimica di Torino, dove quest'anno ci sarà la seconda lezione Primo Levi, una lezione pensata per un pubblico ampio, ma rivolta essenzialmente al mondo della scuola. C'erano due classi del Liceo D'Azeglio a questa prima lezione, con cui poi Gordon, il giorno successivo, ha discusso dei contenuti della sua lezione; e lo stesso faremo quest'anno.
Noi vogliamo raccogliere un'indicazione che ci viene direttamente da Primo Levi, nel momento in cui si è speso moltissimo nel corso della sua vita nel rapporto con le scuole, con gli studenti. È andato a testimoniare direttamente con i giovani della sua esperienza in Lager e questa indicazione per noi è estremamente importante perché vogliamo assumere il pubblico giovanile, il pubblico della scuola in particolare, come un interlocutore privilegiato. Io credo che questo piccolo libro ci rappresenti abbastanza bene, prima di tutto per la qualità dei suoi contenuti e del modo con cui Gordon li ha presentati, e poi anche per l'approccio alla figura di Primo Levi. Questo libro ci aiuta a leggere alcuni aspetti della sua opera, aspetti che hanno una rilevanza particolare anche con riferimento all'attualità, ai problemi di oggi. Io credo che, nel momento in cui sappiamo riferirci a Primo Levi in questa prospettiva e sappiamo cercare nella sua opera occasioni per ragionare su di lui, sulle sue esperienze, ma anche su di noi e sul mondo che abbiamo intorno, facciamo un'operazione utile, riusciamo a contrastare quello che a mio avviso si comincia a percepire, cioè un irrigidimento della figura di Primo Levi nel modo in cui spesso viene presentata. Sappiamo che è uno degli autori più amati, nel mondo della scuola e non solo. Anche per questo, come Centro Internazionale di Studi Primo Levi, vogliamo far sì che il rapporto fra il lettore e l'autore possa svilupparsi nel modo migliore, e nello stesso tempo ci proponiamo di creare gli strumenti più adeguati. Io mi fermo qua e lascio la parola ai due relatori di oggi che dialogheranno, appunto, a partire dal libro di Gordon. Grazie.


Domenico Scarpa:

Grazie a Fabio Levi e, per prima cosa, buongiorno ragazzi! Il saluto specifico è dovuto, perché sono meravigliato e felice di vederne così tanti: questa lezione e questo libro sono stati pensati innanzitutto per loro, per voi. Il Centro Studi Primo Levi vorrebbe parlare di Primo Levi (e di altro: di tutto ciò che può essere legato alla sua figura) innanzitutto a chi Primo Levi non lo conosce ancora, o è appena arrivato a un’età da cominciare a conoscerlo.
Il fatto che ora esista un oggetto che porta il marchio dell'editore Giulio Einaudi, torinese, è, come ci ha appena detto Fabio Levi, un risultato straordinario. È un libro che con Torino ha diversi legami, alcuni più evidenti altri meno evidenti; è anche un oggetto bello da guardare e da toccare, ha una grafica, un'impostazione grafica – per chi lo andrà a vedere, a sfogliare – che sa di tradizione, sa della tradizione di questa città. Anche per questo è importante che ci sia. I legami maggiormente visibili di questo libro con la città di Torino sono ovviamente il nome dell'editore e il nome dell'autore di cui si parla, Primo Levi. Mi fa piacere però fermare la vostra attenzione su un dettaglio meno visibile di questo libro: si tratta di una dedica, la dedica che Robert Gordon ha voluto scrivere per Beniamino Placido (1929 – 2010).
Beniamino Placido ha avuto forti legami con questa città ed è stato oltretutto il direttore di questo Salone del Libro: era una persona, Placido, che aveva la virtù di far appassionare le persone ai libri. Molti libri io li ho letti grazie a lui, quando avevo la vostra età, l'età di voi studenti che siete qui in quest'aula, ed era lui a suggerirmeli dalle pagine di “Repubblica”, con delle trovate, mi verrebbe da dire, etiche: cioè, Placido aveva dei modi per suggerire la lettura che erano semplicissimi e insieme paradossali. Forse non è un caso che questa lezione di Robert Gordon, nel parlare di Levi, nel parlare di “sfacciata fortuna” rispetto alla Shoah, adotti uno stratagemma non troppo diverso da quello che Beniamino Placido adottava così spesso sulle colonne del quotidiano “la Repubblica”. 
Perché Robert Gordon – e vorrei cominciare di qui la nostra conversazione – compie un'operazione semplicissima, ma che cattura all’istante la nostra attenzione etica. Ossia, prende l'inizio di Se questo è un uomo e interrompe la prima frase a un certo punto, così: "per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz". E qui, dopo la parola “Auschwitz”, è come se mettesse un punto. Queste infatti sono le prime parole di Se questo è un uomo. Che cosa possiamo leggere se facciamo l’esperimento di interrompere la prima frase del primo libro di Primo Levi proprio in quel punto: "per mia fortuna sono stato deportato ad Auschwitz"?


Robert Gordon:

Innanzitutto ringrazio anch'io Fabio, Mimmo, Ernesto Ferrero, la famiglia di Levi, l'Einaudi e tutti quanti hanno reso possibile la mia presenza qui ora e anche a novembre scorso. Mi fa un grande piacere essere qui, è un privilegio, veramente. Vorrei anche ringraziare tutti i ragazzi che sono qui presenti e quelli che c'erano anche a novembre; infatti ho voluto scrivere nella prefazione del libro, ringraziando anche quelli che avevo incontrato il giorno dopo la lezione per la discussione che abbiamo avuto, che a me è sembrata una cosa bella e importante, come ha detto Fabio. Voglio anche ringraziare Mimmo per aver accennato a questa dedica a Beniamino Placido, che mi sta molto a cuore per motivi personali che non racconterò.
Però ci sono anche questi motivi che tu hai notato: Beniamino Placido e Primo Levi sembrano figure lontanissime tra di loro, geograficamente, per l'origine e anche per la formazione intellettuale, però stranamente hanno modi di fare che non sono poi così tanto lontani, anche a livello di scrittura e di atteggiamento verso i libri, e del come imparare dai libri, non in modo pesantemente pedagogico, ma imparando un modo di leggere i libri per leggere il mondo. Questa voleva dire la dedica: con tocco leggero e con una specie di autoironia costante, che è una forma di umiltà. Io trovo in un certo senso commovente questo accostamento casuale, totalmente casuale per il triste avvenimento della morte di Beniamino Placido nel momento in cui terminavo la stesura di questo piccolo libro. Quindi ragazzi, se siete qua e volete andare per esempio online al sito di “Repubblica” dove potete cercare l'archivio, credo, intero, o comunque dagli anni Ottanta in poi, e leggiucchiare un po' delle cose di Beniamino Placido, accanto alle cose di Primo Levi; lì io credo che ci saranno da scoprire tantissime cose.

Forse posso iniziare a rispondere alla domanda prendendo spunto da quella parola che ho appena detto e che è l'ironia. La prima volta che ho pensato seriamente a quella frase con cui inizia la prefazione del primo libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, “per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz”, ho pensato a – e infatti l’ho poi elaborato – un lavoro, diciamo, stilistico, di voce e di tono, sull'ironia di Primo Levi. È una voce che io credo fondamentale e che caratterizza tutta la scrittura di Levi e consiste in quella specie di misurata distanza dalle cose di cui racconta. È una distanza che, personalmente, non credo sia totalmente da identificare con il distacco scientifico di cui parlano tantissimi, o comunque non solo con quello, perché il distacco dell'obiettività scientifica, sì, è un elemento presente in Levi, però nella sua scrittura, nel suo stile preferisco vedere quell'altra forma di distanza dalle cose che ci sta raccontando e descrivendo, che è la distanza ironica.
Allora che effetto fa, mi ero chiesto, leggere una frase del genere all'inizio di un libro di questo tipo: “Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz”? Il primo effetto – evidente ironia di questa frase – è un effetto shock. Ti fermi, o almeno, io mi sono fermato nella lettura, appunto interrompendo, quasi all'inizio, fermandomi davanti a questa constatazione scioccante. Quindi l'ironia, come suo primo effetto, sconvolge le idee con le quali siamo arrivati davanti a questo testo. Soprattutto oggi, non solo nel 1947; ma oggi, quando noi arriviamo a un libro come Se questo è un uomo, anche da giovani, credo, abbiamo già delle idee abbastanza forti, stereotipate per effetto dei libri di storia, della televisione, dei racconti che ci hanno fatto, ma anche a causa della specie di luogo comune che ormai Auschwitz è diventato.
Levi, invece, ha avuto l'intelligenza di voler subito interrompere e sconvolgere questi stereotipi. Ha scritto anche un saggio bellissimo, raccolto come sapete in I sommersi e i salvati, che riguarda appunto gli stereotipi. E il primo effetto è quello che ho poi indagato – nel mio piccolo – in un mio saggio di alcuni anni fa: appunto, l'ironia di Levi, che si avverte già a partire da quelle prime parole di Se questo è un uomo; e lì avevo seguito una linea in cui più avanti, attraverso l'ironia, oppure dopo questa interruzione ironica, seguiva una dimensione storica. Per cui, dopo il momento ironico, arriva una specie di coscienza storica e arriva anche lo studio e l'aggiornamento storico. Perché, come continua la prefazione di Se questo è un uomo? Se posso ve la leggo brevemente.

“Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenore di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli”.

Cioè, non è per niente sciocca e invertita quella frase. Levi aveva veramente avuto una fortuna serissima, senza la quale non sarebbe sopravvissuto. Lui lo crede, e anch’io credo che sia vero, se studiamo la storia. Però, come vedete, tutta la parte finale del suo ragionamento è una specie di passaggio dall'ironia – lo shock della dichiarazione ironica – alla comprensione storica. E io credo che questo passaggio sia fondamentale per capire l'operazione Primo Levi, l'effetto che Primo Levi ha su di noi: e non voglio usare la parola insegnamento, ma comunque la pratica, il modo di leggere il testo, la vita, l'esperienza che noi possiamo dedurre da come lui opera nei suoi testi. Passare da una specie di terra bruciata, però ripartire da zero, cercando di capire il suo mondo e l'esperienza che ha dovuto attraversare. E noi possiamo fare lo stesso con le nostre esperienze, con occhio ironico, ma anche con occhio critico e storico. Questa è stata l'origine delle mie idee di alcuni anni fa.

Ora, stranamente, facendo quel lavoro lì – che in origine era, diciamo, uno studio stilistico – avevo completamente o quasi trascurato la parola fondamentale di questa frase iniziale, la parola che rende ironica la frase. La parola “fortuna”. Perciò, quando sono stato invitato qui a Torino da Fabio Levi a tenere la prima “lezione Primo Levi”, ho pensato che forse era giunto il momento di ritornarci, e di considerare proprio quella parola, “fortuna”. Indagando e cercando di costruire anche altri luoghi dell'opera di Primo Levi (ma guardando anche oltre Levi e intorno a Levi), altre considerazioni generali su questo fenomeno della fortuna e sul ruolo schiacciante che ha nelle nostre vite, nelle nostre società, nelle nostre comunità, nelle nostre relazioni umane, ho stranamente – ma neanche poi tanto – scoperto che Levi era costantemente affascinato da questo problema, che sembra non c'entri nulla con la Shoah: perché dovremmo parlare di fortuna accanto ai discorsi su Auschwitz e sul Lager? E invece Levi ha capito che c'entra e che c'è un nesso di fondamentale importanza tra le esperienze delle nostre vite, anche le più estreme, e questo fenomeno che sembra di una leggerezza banale: “i casi della vita”, “la fortuna della vita”, “ma che strano caso”... Questa serie di parole che usiamo tutti i giorni, che sono, anche lì, luoghi comuni, a indagare, a pensarci meglio, sono complicatissime e fondamentali per capire non solo il Lager ma anche la vita di tutti i giorni e le società in cui viviamo.


Domenico Scarpa:

Ecco, se noi volessimo provare a tradurre in un altro modo quella frase iniziale di Primo Levi “per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz” eccetera, forse la potremmo tradurre così: “per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz quando il ruolo del caso, il ruolo della fortuna si era leggermente attenuato”, cioè non si verificavano più così tante uccisioni di prigionieri ad arbitrio di singoli – non che fossero ormai ridotte a zero, questo no. I “singoli” che uccidevano ad arbitrio sarebbero i militi delle SS o i Kapos che, di fatto, reggevano la vita del campo.
Ma poi per vedere che cosa c'è dietro questa parola (perché questo di Gordon è un libro straordinario che è incentrato innanzitutto su una singola parola, la parola “fortuna”), andiamo a vedere che cosa c'è dietro al libro, che cosa c'è dopo la lezione. “Sfacciata fortuna” è un libro pensato per gli studenti, perché ha un’appendice: è un libro diviso in due parti, anzi, diciamo in tre parti perché la lezione di Robert Gordon è in duplice versione: in inglese – che è la sua lingua madre – e in italiano, la lingua di Primo Levi, nella quale la lezione è stata tradotta. Questa impostazione verrà mantenuta anche le prossime volte: le “lezioni Primo Levi” usciranno sempre in edizione bilingue perché vogliamo parlare anche a chi non conosce l'italiano. Ma vogliamo continuare a parlare per prima cosa agli studenti. E la seconda, o terza, parte di questo libro è un'appendice che consiste in una piccola antologia della letteratura internazionale sulla fortuna, un’antologia che parte da Dante, dal VII canto dell'Inferno, e arriva per l'appunto a Primo Levi, ad alcuni dei brani che Levi ha scritto specificamente sulla fortuna.
Qui forse possiamo, dopo aver descritto il libro, cominciare a dire qualche cosa di più sul ruolo che la fortuna ha giocato nella vita di Primo Levi e anche nel suo stile, nel suo linguaggio: il “linguaggio della fortuna” in Primo Levi.


Robert Gordon:

Allora, il duplice aspetto del libro c'è ed è importante, credo, anche per dare un'idea di come possiamo leggere oggi, come diceva Fabio, come possiamo leggere e direi perfino utilizzare Primo Levi. Levi era uno a cui piaceva il termine “utile” e “utilità”, anche per una scelta filosofica. Leggendo i suoi libri un'altra parola su cui torna sempre è la parola “utilità”; per esempio: “questo mi sembra utile” – ed è praticamente sinonimo di “buono”, cioè è una virtù, per usare una parola che ho usato in un altro mio saggio su Levi. Lui ci teneva all'utilità delle cose di cui diceva, non le scriveva soltanto per – ma certo anche per – motivi personali, per il suo trauma personale. Però fin dall'inizio, subito dopo il suo ritorno dai campi, Levi pensava anche in questi termini, pensava di rivolgersi agli altri con qualche messaggio utile, portato dalle terre dove aveva abitato, nel Lager.

Spero che ci sia una forma di utilità anche in questa appendice che abbiamo messo alla fine del libro, prendendo alcuni testi di Levi e mettendoli accanto a testi canonici e classici della letteratura italiana, ma anche a testi di letteratura non italiana: il principale qui è Shakespeare, il monologo di Amleto, famosissimo, citatissimo, “to be or not to be” – “essere o non essere” – dove, stranamente, troviamo anche lì un’espressione molto simile alla piccola espressione “sfacciata fortuna” che leggiamo nella prima pagina di Se questo è un uomo. “Sfacciata fortuna” rimanda in qualche modo, credo, vagamente, alla frase “outrageous fortune” – “la fortuna oltraggiosa” – che c'è nel monologo di Amleto. Ora, io credo che pensando a come la fortuna sia anche un elemento di stile, sia anche una risorsa per Levi: credo che ci sia anche quello, cioè una specie di coscienza letteraria. Levi usa la fortuna esattamente così come usa Dante: e lo usa, come sappiamo tutti, non solo nel capitolo forse più famoso di Se questo è un uomo, “Il canto di Ulisse”, ma un po' ovunque nei suoi testi. Senza essere un letterato, con una sua cultura, diciamo, liceale – in senso positivo –, lui ha saputo trarre vantaggio da un patrimonio letterario, senza essere pesante, senza citazioni accademiche o scolastiche. Ha saputo farlo anche semplicemente montando una frase, come “la sfacciata fortuna altrui”, che ho trovato qui – come in alcuni accenni ai luoghi danteschi, ma anche, credo, alludendo a elementi del mondo di Boccaccio, che per questo ho incluso nella mia appendice. Ovviamente, il mondo del Decameron è pieno della forza della fortuna rispetto alla forza della Provvidenza divina, un contrasto che Boccaccio ha un po' di difficoltà a risolvere: e anche in Levi ritroviamo la contraddizione tra la Provvidenza divina (che ha incontrato in Dante e nella cultura cristiana) e il mondo laico e secolare, dominato dal caso, dal commercio e dalle furberie, col quale noi stessi cerchiamo di vincere la scommessa delle nostre vite quotidiane.
Quindi, mettendo Levi accanto a questi autori canonici, possiamo vedere anche, io credo, un modo molto particolare di dialogare con la tradizione letteraria, un modo diverso dall'intertestualità postmoderna – che è una formula troppo, diciamo, evidentemente sofisticata per adattarsi a Primo Levi. No, il suo è invece una specie di dialogo fatto di giustapposizioni, di echi, che consiste nel prendere, usare e utilizzare, anzi, rivivificare la tradizione, attraverso accenni molto leggeri, fugaci, che poi però tornano e vengono ripresi, magari anche a distanza di quarant'anni. Cioè, esistono collegamenti tra Se questo è un uomo e questi brevi ma regolari accenni alla fortuna, al caso, alla questione “perché sono sopravvissuto?”.

Problema fondamentalmente etico, che è schiacciante perché gran parte del trauma del sopravvissuto proviene proprio da questo problema: “ma perché sono sopravvissuto?”. È il non trovare un motivo a provocare il trauma, perché non so dare spiegazione alla mia presenza qui nel mondo di oggi. Eppure, quando al contrario esiste un motivo, il fatto risulta quasi più traumatico ancora; perché se – per esempio – sono stato furbo a rubare quel pezzo di pane, oppure a trovare un modo di proteggermi dall'inverno polacco, lavorando in un laboratorio, ecc., allora vengono suscitati moltissimi e intensissimi problemi di senso di colpa, di vergogna – come Levi scrive ne I sommersi e i salvati.
Quindi, questa questione della fortuna non è semplicemente un rimando a una millenaria tradizione letteraria e culturale. È chiaro che all'inizio delle società, come forse della coscienza individuale umana, tutti pensano al ruolo della fortuna e della sfortuna nelle loro vite. È quello che ho letto in un bellissimo, e credo anche abbastanza controverso, saggio di un antropologo americano, Donald Brown, intitolato Human Universals: “Universali umani”. Questo antropologo ha cercato di passare in rassegna tutti gli studi antropologici possibili – anche studi storiografici – e ha poi steso un elenco degli elementi che si trovano in tutte le società umane conosciute. Tutte! Questi elementi sono all’incirca quattrocento: probabilmente, una specie di patrimonio genetico degli esseri umani; certo non possiamo dimostrarlo al cento per cento, eppure sembra abbastanza forte e convincente l'idea che queste cose facciano parte del nostro essere profondo. Un elemento che fa parte di questo elenco dei quattrocento universali umani è “Credenze sulla fortuna e sulla sfortuna”: non esiste nessuna società, non esiste nessun luogo sulla terra dove non sia fondamentale per la comprensione della vita, per i riti religiosi, per la costruzione dei rapporti sociali e dell'individuo stesso, una qualche idea sul caso, sulla fortuna e sulla sfortuna, e qualche mito, cioè qualche racconto, intorno alla questione “Perché? Come faccio a controllare l'oltraggiosa fortuna o a risponderle?”

Allora, per tornare alla questione “lingua, stile e voce”, Primo Levi – e questo è assolutamente tipico di Levi, anzi: credo che questa sia la strada migliore per renderlo attuale – in quel suo modo leggero, toccando alcuni argomenti, tornando su alcuni termini-chiave, magari singole parole, come “fortuna” o “utilità”, riesce a tirar fuori discorsi intensamente personali rispetto al Lager e alla sopravvivenza; discorsi storici, sulle cause e gli effetti degli eventi storici (perché il Lager; com’è fatta la struttura del Lager; che cosa c'era di diverso nel '44 rispetto al '43 ad Auschwitz, e quindi, come dice Mimmo, quali probabilità esistono di sopravvivere nel febbraio del '44 rispetto al dicembre del '43, per un ebreo che arriva ad Auschwitz), allargandosi via via sempre di più, verso questioni che veramente sono umane in maniera universale. Cioè, Levi si chiede che cos'è davvero questo fenomeno della fortuna e della sfortuna. E, nelle nostre società occidentali ed europee, viene da chiedersi subito, pensando a Dante, quale rapporto esiste tra questo elemento della fortuna e le tradizioni di tipo religioso, i sistemi etici che noi abbiamo ereditato dalla tradizione ebraico-cristiana.
Quindi, mi sembra proprio questo il dono migliore di Levi: il suo modo di toccare con leggerezza degli argomenti per poi ritornarci su, allargando sempre di più il suo discorso – io lo considero quasi come una specie di Montaigne dei nostri giorni. Cioè, Levi va interrogandosi su come fa un individuo a vivere... e credo che Montaigne si possa leggere anche oggi!


Domenico Scarpa:

Oggi più che mai!


Robert Gordon:

Più che mai, esatto! Quindi, quasi quasi, vorrei iniziare a leggere Levi così: anche, ovviamente – e credo che sia importantissimo – come testimone di quello specifico evento che è stato l'incubo del Lager e della Shoah; ma attraverso la Shoah, anche in questo modo più universale.


Domenico Scarpa:

Sì; e infatti noi – quando dico “noi” penso sempre al nostro Centro Studi “Primo Levi” – siamo convinti di questo. Cioè, se Levi ha qualcosa da dire oggi, e noi siamo convinti che ce l'abbia, non è solo e non è tanto in quanto testimone di Auschwitz, in quanto abbia passato un anno in quel luogo di morte, ma per come quella sua esperienza è passata attraverso la sua mente e ha prodotto dei discorsi. Anzi, più concretamente, ha prodotto delle parole. Questo libro di Robert Gordon è incentrato intorno a una parola chiave che è “fortuna”, ma se noi perlustriamo l'opera di Primo Levi vediamo che è piena di queste parole chiave, parole che in molti casi ha scelto e trovato lui – e in questo somiglia eccome a Montaigne!
Pensiamo a come Levi ha portato all'attenzione le questioni della comunicazione nel Lager, degli stereotipi, della vergogna, e poi quella formulazione straordinaria che è “zona grigia” – io invito i ragazzi che non hanno mai sentito parlare di “zona grigia” a leggere appunto un libro come I sommersi e i salvati. Levi è stato un grande inventore di concetti che sono semplici e complessi, e che hanno delle cose da dirci.

Quanto a Robert, avete sentito il suo modo di parlare. Lui partiva prima, in questa risposta che ha dato, dalla parola “utilità”, dalla presenza dell'utilità nell'opera di Primo Levi. Conoscendo le sue cose precedenti – Robert Gordon ha scritto un libro su Primo Levi che credo sia il più bel libro scritto su Primo Levi; è stato anche tradotto in italiano sette anni fa e s’intitola Le virtù dell'uomo normale – la sua virtù di studioso è appunto una virtù legata all’utilità: far funzionare l'opera di Primo Levi, farla funzionare davanti ai nostri occhi. Ora, anche l'apparato di questo libro, l'appendice di cui si diceva prima, dove troviamo i brani di Dante, di Shakespeare, di Goldoni, di Primo Levi, è un luogo dove l'opera di Levi viene fatta funzionare, dove le varie formulazioni del tema della fortuna si richiamano l'una con l'altra come se facessero rima, come se fossero una sorta di grande poesia, scritta per una parte in versi e per un’altra porzione in prosa. Perché, a pensarci bene, la fortuna oltraggiosa, outrageous fortune, è una fortuna che va oltre.
Anche nel brano di Dante, che è un brano dal VII dell'Inferno, quindi dal quarto cerchio, dal quarto girone dove ci sono gli avari e i prodighi, è lì che si parla di fortuna, e gli avari e i prodighi sono dei personaggi eccessivi. Gli avari sono eccessivi nel tenere stretto, i prodighi sono eccessivi nel dare. La fortuna sembra in qualche modo legata all'eccesso; mentre poi c'è un altro brano dal Principe di Machiavelli, che è famosissimo, sul ruolo della fortuna che governa pressappoco, dice Machiavelli, la metà delle cose umane e che può essere contrastata da quella che Machiavelli definisce – con una espressione straordinaria – “ordinata virtù”.
Quindi, l'eccesso contro l'ordine. Questo è il prossimo tema che ti proporrei. Qual è, se c'è, un equilibrio fra la virtù dell'uomo normale, l'eccesso della fortuna e l'ordine della virtù?


Robert Gordon:

Questa è affascinante. Ti ringrazio di questa domanda, difficile anche, perché ci sono tanti spunti. Diciamo che partirei da quella formula un po' fintamente matematica di Machiavelli, perché anche questo è uno spunto importante e ha legami rispetto alla questione “eccesso vs. ordine”. Stranamente, nella tradizione di pensiero e di filosofia intorno alla questione della fortuna, spuntano spesso, anche prima dell'epoca moderna, queste formulazioni matematiche ma fintamente matematiche. Cioè, Machiavelli appunto dice: possiamo dire più o meno che metà del nostro destino viene determinato dalla pura fortuna, che è qualcosa che non possiamo controllare in nessun modo, e però – dice – possiamo imporre l'altra metà usando le nostre virtù – non nel senso che uso io per Levi, ma nel senso machiavellico: possiamo cercare di arginare o comunque controllare la fortuna, cioè il nostro destino, per una metà. Quindi, metà e metà.
In questo, ovviamente, non c'è nessuna verità, diciamo così, scientifica; eppure questo ci dà un'idea attendibile sul ruolo, sul peso della fortuna al tempo di Machiavelli. Ma poi, proseguendo, che cosa accade di strano alla filosofia e al concetto della fortuna nei secoli successivi, nei secoli che dividono Machiavelli dai tempi nostri e da Levi, cioè il Settecento/Ottocento e poi il Novecento? Succede che la fortuna diventa un discorso matematico. La fortuna, per così dire, diventa caso, statistica e probabilità. Ora, questo è un elemento assolutamente fondamentale di quella che noi chiamiamo modernità, cioè il qualcosa che ci divide dal Cinquecento di Machiavelli e da tutta l'epoca premoderna. Cosa succede nel Settecento, nell'età della ragione, nell'Illuminismo, che costruisce quello che noi viviamo ancora oggi, e che è una forma di modernità? Tantissime cose. Adesso non mi metto a fare una conferenza sulla definizione della modernità – non sarei neanche capace –, però sicuramente un elemento centrale e fondamentale, anche per il sapere scientifico moderno, è una specie di invenzione della statistica, di un concetto della probabilità, e quindi un'idea totalmente nuova – e veramente, in senso pieno, matematica – del caso, della casualità.

Qui ritorniamo al discorso sull’ordine e sull’eccesso, perché nell'Ottocento le società europee occidentali cominciano a raccogliere statistiche, a fare censimenti, a organizzarsi statisticamente, anche a livello dello Stato – infatti in un certo senso, lo Stato si autodefinisce e controlla la popolazione attraverso conoscenze statistiche di quella popolazione, cioè contandoli e nominandoli anagraficamente, ma anche dividendoli in categorie secondo il sesso e l’età. Tutte le tabelle statistiche vengono inventate, come strumento dello Stato, tra il Settecento e l'Ottocento. E a quel livello lì, cioè usando la nuova scienza della statistica, il caso viene in un certo senso eliminato. Perché la statistica ci dice (nel mio libro ho parlato scherzosamente di “un’idea attuariale della vita”) che, a livello della popolazione generale, io posso dire a tutti voi che siete in quest'aula: centoventi di voi vivranno fino a ottant'anni; dieci di voi... non dico il seguito per scaramanzia! Però questo è un fatto statisticamente vero: quindi non esiste più quella mentalità che aveva determinato tutte le idee sul caso rispetto alla Provvidenza divina, e che si fondava sull'impossibilità di sapere il futuro. Al contrario, con la statistica noi possiamo, a quanto pare, sapere cosa succederà a livello di una popolazione: questo è l'ordine totale e si ricollega, credo, a ipotesi – che sono ben conosciute – sul legame tra l'Illuminismo e il Lager. Ci sono pensatori famosi, come Adorno e Horkheimer, che come si sa hanno ipotizzato che il Nazismo e il Lager siano il lato oscuro dell'ordine totale instaurato dalla modernità, un ordine di cui fa parte anche questo controllo della società per mezzo della statistica, nel quale il caso viene eliminato.
Io non sono un matematico, però sto parlando, a livello di discorsi culturali e istituzionali, di controllo. Allora, in che cosa consiste l'eccesso in questo ambito? In senso positivo, dov'è il disordine? Per avere un elemento di disordine bisogna accantonare i discorsi sulla popolazione e sul controllo totale a livello macroscopico, e riscoprire invece l'individuo. Allora c'è un nesso forte, fortemente morale, tra l'individuo, che incarna in un certo senso il caso (caso che sussiste ancora, perché io come individuo non so quanto vivrò, anche se a livello di popolazione e di probabilità qualcuno me lo potrebbe dire) e che quindi, incarnando il caso, incarna anche il disordine, e la fortuna; il legame morale è tra il singolo individuo e la fortuna. E se noi puntiamo sulla fortuna, è chiaro che il sistema più totale e più totalitario che sia mai esistito è il sistema nazista della soluzione finale. Quindi, anche in questo caso, un individuo che sia sopravvissuto al sistema della morte – e la sua sopravvivenza è ovviamente un elemento di disordine, di negazione di quel sistema – viene a essere come l’incarnazione del caso.
Per questo è importante, per Levi, il fatto di dire “io sono sopravvissuto, per fortuna”. Non tanto, credo, per polemica antireligiosa, cosa che potrebbe forse apparire da un altro brano che ho citato (un brano famoso e, mi sembra, molto forte) da I sommersi e i salvati, là dove dice che al ritorno dalla prigionia un amico era venuto a visitarlo e gli aveva detto “tu sei sopravvissuto per un motivo” – un motivo provvidenziale, la sopravvivenza – e lui rifiuta e si arrabbia: qui non c’è più il Levi sobrio, calmo, mite, il Levi che non ha emozioni. No, per niente, questo è un Levi falso. Quindi l'amico (cito):

“mi disse che l'essere sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate, come sostenevo e tuttora sostengo io, bensì della Provvidenza”.

Levi considera questa frase e prosegue rispondendo: “Questa opinione mi pare mostruosa”.

Questo brano è stato sempre letto, mi pare, come un’espressione del Levi laico che rifiuta un'idea della Provvidenza di tipo cristiano o comunque religiosa, e in parte le cose stanno anche così. Però credo ci sia anche un altro discorso di fondo: cioè, che l’essere sopravvissuti grazie alla fortuna non vuol dire non poter più parlare della sopravvivenza, cioè scartarla – spesso la sopravvivenza sembra così, si è verificata per fortuna, per pura fortuna, e non c'è niente da dire, c'è solo il caso. Il caso non esaurisce il discorso sulla sopravvivenza: non lo esaurisce, perché ha una sostanza, eccome, questo essere sopravvissuti per fortuna, perché il ruolo della fortuna rispetto alla vita dell'individuo – e questo vale per tutti noi – è legato anche al ruolo del disordine, della sfida al sistema, di un piccolo elemento di libertà, se vogliamo, rispetto a discorsi tendenzialmente totalitari.


Domenico Scarpa:

Molto bello questo discorso! Questo di Robert è un libro che ha un retroterra non solo letterario: i brani dell’appendice sono tutti brani della letteratura, appunto, da Dante a Primo Levi; però dentro il corpo del saggio, nel corpo della lezione, vengono citati filosofi, scienziati, antropologi. È un discorso linearissimo: Robert è un pensatore e uno scrittore lineare, dalla lingua molto ricca, ma soprattutto chiaro.
Io proverei a sintetizzare una parte del suo discorso in questa maniera: Primo Levi ha fatto molte volte nella sua vita l'elogio dell'impurezza, anche perché trovava di fronte a sé degli interlocutori, anzi, degli aguzzini che, mediante la purezza della razza, tendevano a fare scomparire e a eliminare tutto ciò che puro non era. Ora, l'impurezza a me sembra, da quel che dice Robert nella sua lezione, per l’appunto un modo di sfuggire alla statistica. Tu mi vuoi contare per forza, tu mi vuoi definire per forza e mi vuoi chiudere in una scatola, in una casella, in una cifra matematica: mi vuoi calcolare. Bene: se io sono impuro, tu a calcolarmi non ci riesci, o non ci riuscirai completamente.
Qui l’impurezza ha un ruolo salvifico. Dall'altra parte, però, c'è un'altra cosa a cui sfuggire: occorre sfuggire al caso che ti uccide. Come si sfugge al caso sfortunato, alla fortuna cattiva che ti uccide? E lì vengono fuori le virtù dell'uomo normale, la capacità di resistere per mezzo del lavoro.

Era affascinante il discorso che Robert faceva, all'inizio, sullo Stato che a un certo momento, nell'Ottocento, comincia a fare i censimenti. Ricordiamo che c'era un censimento anche all'inizio del Nuovo Testamento e che Levi era un grande lettore della Bibbia. Ma, se il censimento dello Stato moderno è un censimento che vuole contare gli individui e nominarli uno per uno, il censimento che si fa in Auschwitz è un censimento che vuole contare sì, ma per azzerare quel numero, toglierli tutti di mezzo, prima tatuandogli il numero su un braccio e quindi togliendo il nome – un anticensimento, che vuole contare per togliere il nome e per ridurre a zero. Quanto conta (chiedo scusa per il gioco di parole) la virtù dell'uomo normale dentro questo sistema di censimento azzerante?


Robert Gordon:

Io credo che conti moltissimo. Stiamo ancora parlando di parole chiave, parole come impurezza, disordine come forma di eccesso, aggiungerei anche incertezza, che è molto importante per Levi e anche per quel modo di usare Levi, cioè di leggere Levi per leggere il mondo senza però trarre lezioni moralistiche, perché non c'è certezza in Levi. In una sua poesia lui ha una formula, che io metto sempre nelle mie lezioni su Levi per paura di questa deriva moralistica nei modi in cui viene spesso letto: “non chiamateci maestri”. Soltanto perché siamo sopravvissuti non siamo privilegiati, non siamo dei santi; non chiamateci eroi o santi, non ricordo bene la formula, però lui ritorna spesso su quell'elemento lì. Lui vuole riflettere, vuole coinvolgere gli altri in queste riflessioni, ma non vuole trasmettere messaggi fissi e certi; quindi l'incertezza è anche un elemento di impurezza, disordine ed eccesso.

E, continuando con questo discorso dei numeri, che mi piace – è metaforico, ovviamente, ma per quello non meno importante – possiamo tentare una specie di classifica etica dei numeri. Zero non mi sembra un numero buono, quindi, hai ragione, essere azzerati diciamo è il contrario della numerologia etica – faccio un po' il Machiavelli qua, usando i numeri in modo fantasioso per altri motivi. Allora, il numero uno, tornando al discorso di prima, è un numero altamente etico perché sfugge in qualche modo ai sistemi, come stavo spiegando prima. Però credo che i numeri due, tre e quattro sono anche numeri importanti e fortemente etici, perché il salto tra l'uno e i molti – cioè quel salto tra l'individuo e la popolazione intera, soggetta alla statistica e ad altre forme di controllo – lascia un vuoto, e almeno in quei numeri (due, tre e quattro) c'è spazio per un'altra operazione normale, senza essere normativa, che è la comunicazione umana.
Non voglio dire assolutamente che Levi sia un individualista, puntando sul discorso dell'individuo, dell'uno, del singolo. Lui è un individuo tra altri individui, dialoga, come stiamo facendo noi, e anche questa è una fondamentale virtù di Primo Levi, cioè di inserire nei suoi libri, nel testo proprio – anche al livello stilistico e strutturale del racconto – il dialogo tra due persone, o comunque tra piccoli gruppi di individui. Stavamo parlando ieri del libro straordinario che è La chiave a stella, che ha un contenuto molto forte e interessante a livello della filosofia del lavoro, ma è un libro appositamente strutturato come un dialogo tra Faussone e una figura che è più o meno Primo Levi stesso. Cioè il dialogo tra due o, comunque, incontri di gruppo tra amici è il modo che ha Levi per trasmettere questa sua conoscenza e queste sue esperienze.
Ho trovato affascinante, leggendo recentemente un libro di divulgazione sulla matematica, degli studi antropologici – di nuovo – sul modo di concepire il numero in società primitive, in società dove la numerazione funziona in modi diversi; e pare che sia molto comune in società non sviluppate un modo di concepire il numero che parte da uno (spesso non c'è lo zero, così come non c'era in Occidente fino a pochi secoli fa), arriva fino a cinque o sei, o magari anche solo a due o a tre, e poi non ci sono più i numeri. Subentra la categoria “tanti”. E se il ricercatore, l'antropologo, cerca di mettere dieci cose di fronte a una persona che appartiene a una di queste società e le dice “quante sono?”, la risposta è “molti”; mentre se metti due o tre cose, spesso la risposta è “due” o “tre”. È come se ci fosse una specie di salto che noi non vediamo più, perché ci è stato imposto un sistema troppo rigidamente regolare dei numeri, che vanno da uno fino a dove vuoi, sempre aggiungendo unità singole, per accumulare un altro numero più alto. E credo che ci sia anche, vagamente, un'eco di quello che ti sto dicendo ora, cioè che zero, sì, è un problema; per l'uno c'è una specie di discorso etico, e poi anche il modo di parlarsi in piccoli gruppi di due o tre, piccole comunità magari; poi, nel momento in cui passiamo a grandi gruppi, più di cinque o sei, ma poi soprattutto se arriviamo al livello macroscopico, al livello di società intere, stiamo attenti! Cioè, sono grossi i rischi di sviare, di parlare in modo che non è assolutamente a misura umana. E questo vale a tantissimi livelli e, anche lì, credo che Levi, nella sua scrittura, nel modo in cui dialoga con i lettori, nel modo in cui dialoga con i giovani, nel modo in cui ogni testo è – e lui l'ha scritto anche – scritto sempre con il lettore, immaginando il suo lettore davanti a lui, come se stesse parlando a lui; e infatti nella famosa polemica con Giorgio Manganelli sullo scrivere oscuro, in cui Levi dice “è un dispetto verso questo lettore che io ho davanti a me se io scrivo in modo oscuro.” Possiamo condividere o no a livello letterario, però questo discorso, a livello delle virtù della scrittura di Levi, credo che sia fondamentale. È molto importante.


Domenico Scarpa:

Sì, è bello e anche istruttivo considerare i numeri come individui: non solo il numero uno, ma tutta la serie dei numeri. Primo Levi, se ci pensate, scrive quasi sempre in due, in coppia. Durante tutto l'anno di permanenza ad Auschwitz c'è Alberto accanto a lui; quasi tutto Se questo è un uomo è un libro che parla di una coppia di amici che attraversano questo luogo di morte. La tregua, altrettanto, prima col Greco, poi con Cesare, poi ancora con Leonardo. Ne Il sistema periodico ci sono dei racconti che sono di fatto dei racconti di amicizia, di coppia, racconti di amici, straordinari! Pensate solo a Ferro, alla figura di Sandro Delmastro. Ne La chiave a stella, l'ha appena ricordato Robert, c’è Faussone. Cioè, esiste questa dimensione del due che scardina tutti i calcoli perché non è solo una coppia: il due è un moltiplicatore, un moltiplicatore di virtù diverse. Ci sono due persone che non sono uguali, che stanno nel mondo, che fanno cose diverse e le fanno insieme e ottengono risultati. Levi questa cosa non ce la dice chiaramente, ce la fa vedere, ce la racconta, ce la mostra. E io direi che le ha dato più valore proprio per questo.

Vorrei fare un'altra domanda su un tema che è poi il tema del Salone di quest'anno, cioè la memoria. Anche qui direi che possiamo partire tranquillamente dal titolo del libro precedente di Robert: Primo Levi. Le virtù dell'uomo normale. “Uomo normale” non è una definizione che si è inventato Robert, ma l'ha prelevata dall'opera di Primo Levi che si definisce “un uomo normale, di buona memoria, che è incappato in un vortice. Ne è uscito, per virtù o per fortuna, e da quel momento in poi ha molta attenzione per i vortici reali e metaforici”. C'è un rapporto tra la memoria e la fortuna, fra la virtù e la memoria? In che rapporto stanno queste tre parole, queste tre entità?


Robert Gordon:

Una domanda molto interessante anche questa, grazie. Quella frase, che mi piace molto e ho citato nel titolo del mio libro, “l'uomo normale”, con quell'aggiunta “di buona memoria”, è credo una combinazione difficile da interpretare, e per quello interessante. Cosa significa per Levi, e poi per noi, questa frase? È in apposizione oppure in opposizione? Non lo so; in realtà, in un certo senso lui sta dicendo “sono un uomo normale” – e possiamo partire da tutti i discorsi che abbiamo fatto finora su cosa significa questo termine “normale” – però con il dono eccezionale, quindi non normale, di una memoria particolarmente buona. Per cui, può darsi che Levi stia cercando di spiegare perché è diventato uno scrittore testimone, o forse lo scrittore testimone del Lager: lo è diventato perché ha avuto la fortuna di avere questa memoria particolarmente buona. Credo che ci sia anche questo, cioè nel suo saggio sulla memoria, ne I sommersi e i salvati, in cui parla in modo intelligentissimo e acutissimo – come al solito – dei problemi della memoria, dei rischi della memoria, delle derive della memoria, poi finisce il capitolo dicendo che “meno male, credo che io, per conto mio, sia immune da questi problemi delle derive, perché ho una memoria talmente viva e chiara e presente di quelle esperienze che, credo almeno, anche quarant'anni dopo, di poter parlarne fidandomi della mia memoria”. Quindi credo che ci sia anche quell'elemento di identità personale per Primo Levi, come tanti che hanno questa capacità di ricordo. Proprio ci tiene ad avere una buona memoria.

Però credo che ci sia anche un altro discorso da fare, forse per noi, tutti noi, cioè un legame tra quelle due frasi come una specie di aspirazione. Possiamo arrivare al punto in cui essere normali – una cosa a cui possono arrivare tutti quanti – è ricordare, avere buona memoria. Forse non nel senso neurologico, ma nel senso etico – e qui il tema del Salone del Libro, ma anche tanti anni di riflessioni intorno al dovere della memoria, a tutto il rapporto che noi, noi presenti nel XXI secolo, abbiamo rispetto alla Shoah e al fenomeno del Lager: ci poniamo davanti a questo fenomeno storico e cerchiamo di mantenerne la memoria. E quindi in una dimensione quasi utopica, è normale ricordarsi di Auschwitz – cosa che non è sempre evidente. Quindi, credo che ci sia anche quell'elemento lì, che possiamo trarre da questa giustapposizione tra due frasi apparentemente semplici.

Vorrei anche aggiungere un altro elemento, però. Ho letto ieri su “La Stampa” il riassunto di un discorso che è stato fatto qui da Giovanni De Luna, che puntava sui rischi di un eccessivo parlare soltanto della memoria e dell'istituzionalizzarsi della memoria, e della valanga di giornate del ricordo e giorni della memoria e festeggiamenti ufficiali, che poi si ferma semplicemente alla parola “memoria”, come se quella parola bastasse, come se fosse una specie di icona santa della nostra cultura contemporanea. Cioè, questo è un sintomo di una problematica culturale che dobbiamo affrontare tutti quanti: non basta invocare la memoria, bisogna applicarla, praticarla, pensarci sopra, e quindi l'uomo normale non deve soltanto avere buona memoria, deve saperla usare, renderla utile, appunto. Mi piace ricordare per esempio che, nella poesia in epigrafe a Se questo è un uomo, pubblicata altrove con il titolo Shemà – anche il testo biblico da cui è tratta è incentrato molto sulla memoria, in un certo senso – le parole chiave non ruotano tanto intorno alla memoria, ma a un'altra dimensione, se vogliamo, epistemologica, cioè, “considerate se questo è un uomo, meditate che questo è stato”, laddove forse noi oggi metteremmo “ricordatevi”.
Non è tanto alla memoria che ci dobbiamo affidare, perché noi non abbiamo a livello personale – ovviamente – memoria di questi avvenimenti, e non ci basterà invocare un discorso etico fondato semplicemente sulla memoria. No, bisogna passare a quelle altre dimensioni, un po' come Levi passa alla coscienza storica, come stavo dicendo all'inizio: considerazione, meditazione, cioè forme di intelligenza applicata alla storia e anche alla memoria di quella storia. Non dobbiamo fermarci soltanto alla parola memoria.


Domenico Scarpa:

Questa a me sembra, non dico per la presentazione di questo libro, ma per il lavoro che il Centro Studi “Primo Levi” sta cercando di fare, per il nostro lavoro rivolto ai ragazzi delle scuole, una conclusione perfetta di questa mattinata.
C'è un'espressione che usa Robert nel suo libro – e la cito in inglese: “ethical imagination”, immaginazione etica. Levi aveva questa virtù, cioè il non fermarsi al dato della memoria, ma trasformarlo: “considerate”, “meditate”. Questa mi sembra un'ottima conclusione per stamattina e lascio, solo brevissimamente, la parola a Fabio Levi per un saluto finale. Grazie.


Fabio Levi:

Io vorrei ringraziare Mimmo e Robert per questa bellissima conversazione, che, a mio avviso, rende chiaro, evidente qual è il compito del Centro Primo Levi. Io credo che potremmo sintetizzarlo in questo modo: vogliamo aiutare e fare tutto quello che possiamo perché Primo Levi possa essere utile, utile a ognuno di noi e a tanti altri che non sono in questa sala. Grazie.


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