Conversations with Primo Levi
Some of the most interesting questions asked of Primo Levi and by him as well as his answers in over twenty five years of interviews and conversations.
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C’erano prigionieri che fuggivano dai Lager? [Come mai non sono avvenute ribellioni in massa?]
I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio, da Auschwitz, furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscì qualche decina. L’evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri [erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti,] [...]. Inoltre, a reprimere le fughe, si adottavano rappresaglie feroci [...] Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio [...]
da Ma perchè Auschwitz?
Qual è il ricordo più tragico della Sua prigionia ad Auschwitz?
Probabilmente quello dei primi giorni, cioè il trovarsi precipitato di colpo in un universo del tutto diverso, gravido di sofferenza, e poi incomprensibile. Per me e per gli altri è stato anche questo cessare della comunicazione umana il momento più tragico, perché ha coinciso con il buio totale, la disperazione, il non capirsi più. Questo è stato soprattutto vero per noi italiani trovandoci in un campo in cui si parlavano lingue diverse […]
da Dialogando con...Primo Levi
Ecco, che effetto Le fa rivedere questi luoghi?
È tutto diverso, sono passati oltre quarant’anni; […] Io avevo percorso questi paesi d’inverno e la differenza è totale, perché l’inverno polacco era, ed è tuttora, un inverno duro, non come quello a cui noi in Italia siamo abituati, la neve persiste tre, quattro mesi, e noi eravamo inetti, incapaci insomma di reggere all’inverno polacco, sia durante la prigionia che anche dopo. Io ho percorso questi paesi allo stato di persona dispersa, di persona spiazzata, alla ricerca di un baricentro, di un qualcuno che mi accogliesse. E, veramente, era desolato come paesaggio.
da Ritorno ad Auschwitz
Voi sapevate dove andavate, quale era la vostra destinazione?
Noi non sapevamo praticamente nulla. Avevamo visto alla stazione di Fossoli il cartello con la destinazione sui vagoni, con sopra scarabocchiato «Auschwitz»; ma non sapevamo dove fosse, abbiamo creduto che fosse Austerlitz. Pensavamo: mah, sarà da qualche parte in Boemia. A quel tempo in Italia credo nessuno, neppure le persone meglio informate, sapevano che cosa volesse dire Auschwitz.
da Ritorno ad Auschwitz
Lei non crede che gli altri, gli uomini, vogliano al più presto dimenticare Auschwitz, oggi?
Esistono segnali che questo avviene, dimenticare o addirittura negare. Questo è significativo: chi nega Auschwitz è quello stesso che sarebbe pronto a rifarlo.
da Ritorno ad Auschwitz
È tornato ad Auschwitz?
Due volte, nel 1965 e nel 1982 . La scritta della lapide che c’è all’ingresso del «memorial» degli italiani non è firmata ma è mia. Le posso dettare le parole: «Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa’ che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa’ che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non sia nuovo seme né domani né mai».
da Levi: l'ora incerta della poesia
Come fu il ritorno nel Lager?
Nel 1965 meno drammatico di quanto possa sembrare. Andai per una cerimonia commemorativa polacca. Troppo frastuono, poco raccoglimento, tutto rimesso bene in ordine, facciate pulite, tanti discorsi ufficiali...[Nel 1982 invece] Eravamo in pochi, l’emozione è stata profonda. Ho visto per la prima volta il monumento di Birkenau, che era uno dei trentanove campi di Auschwitz, quello delle camere a gas. È stata conservata la ferrovia. Un binario arrugginito entra nel campo e termina sull’orlo di una sorta di vuoto. Davanti c’è un treno simbolico, fatto di blocchi di granito. Ogni blocco ha il nome d’una nazione. Il monumento è questo: il binario e i blocchi.
da Levi: l'ora incerta della poesia
[Nelle occasioni in cui è tornato ad Auschwitz] Si presentavano nomi, volti di vittime, volti di carnefici […]?
No, ritrovavo sensazioni. Per esempio, l’odore del luogo. Un odore innocuo. Credo sia quello del carbone.
da Levi: l'ora incerta della poesia
Per quanto tempo Lei è stato internato?
Per un anno, dal febbraio del ’44 al gennaio del ’45.
da Il veleno di Auschwitz
Qual è il ricordo di un suono, di una parola, piú precisa di Auschwitz? Qual è il ricordo che Le torna più spesso alla memoria?
Come parole, i comandi. Come suono, le marce che suonava l'orchestra ogni mattina e ogni sera, era una dozzina forse, una quindicina, sempre le stesse. Io non so scrivere musica, ma potrei dettarle benissimo. Ho scritto in Se questo è un uomo che è l’ultima cosa che dimenticheremo. Sono passati quarant’anni e posso confermarlo.
da Il veleno di Auschwitz
[Com’è nato il campo?]
[...] Era stato fondato alla fine del ’40 con lo scopo di stroncare la resistenza polacca. Ha cambiato via via destinazione fino a diventare il campo destinato agli ebrei, ma non era un campo di pura distruzione, era un ibrido, come Majdanek. I campi di distruzione erano altri, erano Treblinka, Chełmno, Sobibór, Belžec da cui non si usciva. [...]
da A colloquio con Primo Levi
È ironico che il momento più doloroso della Sua vita sia stato anche il più incisivo.
Non c’è contraddizione, non crede? È stata una cosa dolorosa, certamente, però è stato anche – sembra cinico dirlo – il periodo più interessante della mia vita. È stata un’avventura anche. Non sono il solo a parlare così. [...]
da Un'intervista con Primo Levi
[...] Molti hanno ricordato l'episodio della guardia che si è pulita la mano sulla Sua camicia. Perché quell'episodio in particolare ha colpito il pubblico tedesco?
Era un atto fortemente simbolico e per questo ha colpito la genrte: ha colpito anche me. Non era un atto di violenza fisica: un pugno in faccia era molto più doloroso. Ma questo fatto di essere usato come uno strofinaccio l’ho percepito allora, e lo sento anche adesso, come uno dei più grossi insulti che io abbia patito.
da Un'intervista con Primo Levi
Che cosa vuol dire, moralmente e spiritualmente, «abituarsi» [alla violenza]?
Uno perde la sua umanità, semplicemente. L’assuefazione alla vita del Lager è per un verso l’unica via per sopravvivere, per l’altro significa perdere una parte della propria umanità. Il tema di Se questo è un uomo è anche questo. Riguarda le guardie e i prigionieri. Non erano più umani né gli uni né gli altri. La disumanità del sistema nazista arrivava fino ai prigionieri, salvo quelle poche eccezioni.
da Un'intervista con Primo Levi
Come si riacquista l’umanità, dopo Auschwitz?
Ricorda le ultime pagine di Se questo è un uomo? Lì ho descritto come l’ho riacquistata, quando con altri compagni abbiamo potuto aiutare i malati e i moribondi, benché fossimo malati anche noi. Ho mantenuto un’amicizia profonda con un francese che mi ha aiutato, Charles [Conreau]. Ci scriviamo ancora. […] perché abbiamo avuto l’impressione, sia lui sia io, di aver vissuto un’importante avventura insieme: quella di aver cercato di salvare delle vite umane. Era appena finita la prigionia: eravamo ancora ad Auschwitz, ed eravamo ancora malati. Però abbiamo montato una stufa e abbiamo fatto da mangiare per dieci persone, cercando di farle sopravvivere un po' di più. Abbiamo avuto proprio l’impressione di riacquistare la dignità umana. Aiutando gli altri. E anche gli altri l’hanno sentito. Quei poveri malati, povera gente, alcuni moribondi, che hanno deciso di darci un tozzo di pane che avevano avanzato, anche questo era un atto di umanità, diverso da quello che era avvenuto prima.
da Un'intervista con Primo Levi
[...] Ci può mai essere una «violenza utile»?
[...] Ad Auschwitz, ho avuto la sensazione di due diversi livelli di crudeltà. […] in molte azioni dei nazisti c’era proprio il desiderio di infliggere sofferenza fine a se stessa. E niente altro. Ho citato anche il caso, il caso clamoroso, delle novantenni [dell’ospizio ebraico di Venezia] che sono state caricate sui treni e portate nei Lager. Non era più logico ucciderle subito? Non so se sia giusta la mia interpretazione, che è quella, appunto, di infliggere la massima sofferenza possibile; o magari era pura stupidità. […] Penso che ci fosse proprio un piacere maligno a deportarle. Siccome erano stati nutriti da una intensa propaganda secondo cui gli ebrei erano veramente Ungezieferen – animali nocivi, parassiti – […]. Eravamo davvero odiati da molti ed era considerato giusto farci soffrire. [...]
da Un'intervista con Primo Levi
Si è mai posto la domanda di come sarebbe stata la Sua vita senza Auschwitz?
E sì, certo! Non solo me la sono posta, ma me la pongono tutti! Io non so rispondere. Scusi, se io dicessi a Lei, «Se Lei non fosse nata in America, che cosa avrebbe fatto?» Lei non potrebbe rispondere. [...] Non lo so, ma posso fare qualche supposizione. Probabilmente non avrei scritto. O avrei scritto chissà cosa. Facevo il chimico, e con molta convinzione. Infatti, ho fatto il chimico per tutta la vita. […] Probabilmente non avrei scritto o avrei scritto delle cose completamente diverse, forse qualche trattato di chimica. Certamente possedevo la capacità di scrivere; questo non posso negarlo. Non sono nato da nulla. Avevo fatto degli studi classici abbastanza seri e lo strumento della scrittura lo possedevo. Ma non avrei avuto, come dire, la materia prima per diventare scrittore.
da Un'intervista con Primo Levi
Ha messo molta enfasi sull'impossibilità di comunicare, sia con il mondo esterno che fra di voi [prigionieri]. C’era una lingua franca ad Auschwitz, che non fosse il tedesco?
All’inizio era il polacco, e anche lo yiddish. Poi arrivarono così tanti ungheresi che tutti parlavamo ungherese. Era la lingua più diffusa. Io parlavo tedesco con loro, dal momento che non tutti ma molti ungheresi sapevano un po’ di tedesco. Eccetto i contadini. I contadini non sapevano niente, ed erano così numerosi! [...] Parlavano solo ungherese e yiddish. [...]
da Primo Levi: un'ultima conversazione
In Lager c’era differenza tra uomini e donne?
Uomini e donne erano in Lager diversi e le donne stavano peggio. Stavano peggio per molti motivi: in primo luogo perché il lavoro era lo stesso per uomini e per donne e mediamente le donne sono meno robuste degli uomini e poi perché l’ideologia nazionalsocialista era profondamente antifemminista. Le donne erano considerate, come dire, degli strumenti di riproduzione. Dovevano «fabbricare» guerrieri, «fabbricare» i difensori della patria, non avevano altro scopo. Non si vedeva nella donna altro, anche se poi eccezioni ce n’era, naturalmente, come ce n’era dappertutto, ma alle ragazze a scuola veniva insegnato questo: che la donna doveva essere modesta, doveva non aspirare a una carriera, doveva sposarsi presto, doveva sposarsi con un uomo biondo, bello, germanico, di razza pura e cosí via e mettere al mondo più figli possibile. Questo disprezzo veniva moltiplicato per le donne non tedesche: erano ancora peggio, insomma erano veramente una merce di dozzina. Bisogna pensare cosa significa, anche per un uomo, naturalmente, ma tanto più per una donna, abituata, che so io, a una certa eleganza, a una certa cura di se stessa, avere i capelli rasati e venire privata di tutto, vestita di stracci non sulla sua misura, di scarpe con cui non si poteva camminare. Perdere, insomma, ogni caratteristica femminile, diventare un pupazzo immondo. Era molto traumatizzante. Questo, è chiaro, non l’ho provato io, perché i campi erano separati, però ho parlato con molte mie amiche che hanno raccontato quello che anche noi sentivamo, cioè questa spersonalizzazione del primo giorno…
da Io non pensavo di scrivere
Quali sono i primi sentimenti e le prime sensazioni che prova adesso quando pensa al Lager?
[…] In primo luogo ho sviluppato dei terribili calli, una callosità, perché ho parlato di queste cose con parecchie centinaia di persone e il mio libro, Se questo è un uomo, è stato tradotto in molte lingue, ne ho parlato pubblicamente, è stato ridotto per radio e per teatro, ha avuto, insomma, una lunghissima storia e oramai il Lager sta dietro a tutta questa barriera di destini successivi. Per questo dico che è inquinato il mio ricordo del Lager, si confonde con quello del libro. Devo fare uno sforzo per pensare adesso a quella condizione e per ricostruirla e devo dire che Se questo è un uomo mi funge da memoria artificiale perché se non l’avessi scritto, avrei finito col dimenticare qualche cosa. [...]
da Io non pensavo di scrivere
La coscienza di patire tutti una comune ingiustizia non vi univa?
Non abbastanza. Per molti motivi. Il motivo fondamentale è che mancava la comunicazione […]. Pochi fra noi ebrei italiani capivano il tedesco o il polacco; pochissimi. Io sapevo qualche parola di tedesco. L’isolamento linguistico, in quelle condizioni, era mortale. Sono morti quasi tutti gli italiani per questo. [...] Chiedevi informazioni, notizie, spiegazioni al tuo compagno di letto e quello non ascoltava e non capiva. Questo fatto era già un primo grosso ostacolo all’unione, al riconoscersi come compagni.
da Conversazione con Primo Levi
Cioè: Auschwitz è la prova della non-esistenza di Dio?
C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. [Sul dattiloscritto, a matita, ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo].
da Conversazione con Primo Levi
Ha ancora dei contatti con i compagni del Lager?
Henek l’ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. È uno di quelli che hanno rimosso tutto: […].
da Incontro con l'autore
C’erano anche molti suicidi?
No. Questo è un argomento importante. C’erano pochi suicidi, in Lager, e del resto c’erano pochi suicidi anche in tempo di guerra, meno che adesso, e... ho letto diverse spiegazioni del fatto, poco convincenti: la mia interpretazione è che il suicidio è un fatto umano, in quanto non animalesco, gli animali non si suicidano, e che il livello umano tendeva all’animalesco in Lager, sí, lo dicevo prima, l’importante era il fatto della giornata, cosa si mangiava, quanto freddo c’era, che fatica che si faceva, quale lavoro c’era da fare, arrivare alla sera insomma. Non c’era tempo di pensare... di pensare a uccidersi.»
da Intervista a Primo Levi, ex deportato
Non sapevate come funzionava, come procedeva [lo sterminio]?
No. Correva, sí, voce che ci fossero un crematorio e una camera a gas, ma siccome non erano nel mio campo... Erano a quattro chilometri di distanza e così le voci che ci arrivavano erano censurate, e per molte ragioni. Censurate perché i tedeschi non volevano che si sapessero, e censurate perché anche i prigionieri che venivano da altri campi e le sapevano non ne parlavano volentieri, quasi per una specie di galateo. Come in un salotto non sta bene parlare di cancro, così là non si parlava di camere a gas; era considerato di cattivo gusto, insomma. Si sa, ci sono, ma... e poi nessuno sapeva bene come fossero fatte, perché chi ci andava non ne usciva.
da Dal fascismo ad Auschwitz c'è una linea diretta
[Già nel Lager pensava che, se fosse sopravvissuto, avrebbe scritto di quell’esperienza?]
[...] Sì, avevo una vaga idea di sopravvivere per scrivere, questo sì, mi ricordo di averlo detto a qualcuno. Addirittura, quando ero in laboratorio e avevo una matita e un quaderno ho scritto qualche pagina, che poi ho perso: l’ho scritta così, per l’urgenza di scrivere, sapendo benissimo che poi l’avrei persa. Ma era molto importante per me, allora, la possibilità di diventare un testimone: lo sentivo già allora, non solo io, ma un po’ tutti; con tutti quelli con cui si parlava si diceva: «È importante sopravvivere per poterlo raccontare perché il mondo sappia queste cose». [...]
da Dal fascismo ad Auschwitz c'è una linea diretta